Europa tra il ritorno della leva, la povertà di crescita e la tentazione dell’acciaio
C’è un rumore nuovo in Europa. Non il fragore della guerra — quella la sentiamo già dalla notte del 24 febbraio 2022 — ma un fruscio antico, un passo che credevamo sepolto sotto le macerie del Novecento: il ritorno della leva, della “naja”, del soldato di popolo. Un ritorno che non nasce dalla nostalgia, ma dalla paura.
La Germania: un gigante economico che marcia con il passo spezzato
La Germania si rimette l’elmetto proprio nel momento in cui ha perso lo smalto della sua locomotiva. Crescita quasi a zero, industria rallentata, società stanca. E tuttavia — come se il destino si divertisse a rovesciare le proporzioni — proprio Berlino diventa il cuore logistico della NATO nel piano segreto Oplan Deu: 12.000 pagine di movimenti, convogli, porti, ponti e fiumi da attraversare in caso di attacco russo.
È una mobilitazione che somiglia a un’eco della Guerra fredda.
Ma con una differenza essenziale: allora la Germania era giovane, ricca, ottimista. Oggi è affaticata, rassegnata, con un’economia che affonda nella sabbia mobile della stagnazione.
Eppure rievoca la leva, reintroduce visite obbligatorie, prepara un esercito da 260.000 soldati e 200.000 riservisti. Perché?
Perché la deterrenza è diventata un sostituto della crescita: quando non si produce futuro, si produce paura.
Nell’Europa che non cresce, la minaccia diventa merce politica e il riarmo diventa il nuovo keynesismo: soldi pubblici per armare un continente che ha smesso di credere alla propria prosperità.
L’Italia: un piede nella NATO e un piede nel cortile di casa
Anche l’Italia ascolta questo flusso di vento militare.
Da una parte l’Europa, prudente e burocratica.
Dall’altra gli Stati Uniti, sempre più impazienti e strategicamente nervosi.
E noi in mezzo, a fare equilibri.
Il ministro Crosetto riapre il dossier della leva “volontaria”, che volontaria non è: perché se la minaccia cresce, la volontarietà diventa il prologo dell’obbligo.
Ma per ora la chiamiamo “riservisti specializzati”, “forze da retrovia”, “modello francese”. È il lessico della prudenza politica, l’arte di dire senza dire.
Il Parlamento scalda i muscoli, i partiti gridano, le piazze dormono.
E intanto dodici Paesi europei hanno già reintrodotto la coscrizione: la normalità del futuro non sarà il pacifismo, ma la gestione dell’insicurezza.
L’Italia si trova nella posizione più fragile: non ha la potenza tedesca, non ha l’intransigenza polacca, non ha l’autarchia francese. Ha però un obbligo costituzionale sospeso, una leva che può essere riattivata con un atto parlamentare.
È la lingua della storia che ritorna: quello che sospendi, prima o poi torna a chiederti il conto.
Leonardo: la guerra invisibile e il cielo che diventa un mercato
In mezzo a tutto questo, c’è una sola realtà europea che non teme il futuro: Leonardo.
L’azienda italiana sta costruendo la Cupola di Michelangelo, uno scudo anti-drone globale capace di intercettare sciami, missili, attacchi ibridi, cyber-offensive. Una cupola che non protegge un edificio, ma un Paese intero.
Il nuovo mercato della difesa — 1.140 miliardi entro il prossimo decennio — non parla più la lingua dei carri armati, ma quella degli algoritmi.
E Leonardo è l’unico player europeo che combina radar, satelliti, IA, cyber, missili, e la capacità di integrarli in un’unica architettura.
È come se, mentre gli Stati tornano a sfilare con la leva, le aziende provassero a disegnare la religione tecnologica del futuro: non soldati nelle trincee, ma reti neurali nel cielo.
Cingolani l’ha detto senza ipocrisie: «Non sta finendo la guerra. Sta iniziando una guerra nuova.»
E infatti i governi corrono, perché la pace è diventata una parentesi amministrativa tra una minaccia e la successiva.
L’Europa armata ma senza anima
Il paradosso è questo:
l’Europa si riarma mentre la sua economia non arma più nessun sogno.
Abbiamo la leva ma non la crescita, i piani militari ma non quelli industriali, la deterrenza ma non la fiducia. Ci prepariamo alla guerra come se fosse un rito identitario, il modo con cui una civiltà stanca tenta di ricordare a se stessa che è ancora viva.
E allora l’elzeviro non può che chiudersi con una domanda:
Davvero l’Europa potrà difendersi riarmandosi senza prima ricostruire le ragioni della propria speranza?
La risposta, come sempre, non è nei bilanci della difesa.
Ma nella capacità — ancora tutta da ritrovare — di immaginare un futuro in cui non sia l’acciaio a tenere insieme le nostre fragili democrazie, ma ciò che esse hanno sempre custodito come tesoro: la fiducia che domani sia migliore di ieri.
Finché quella mancherà, la deterrenza sarà solo una fragile scenografia.
E la guerra, anche senza sparare, resterà la nostra ombra più fedele.
