Respinta dall’amministrazione Trump la richiesta dei vescovi americani di respingere almeno durante il periodo natalizio la deportazione degli immigrati non in regola con i documenti, ma onesti lavoratori nel Paese.
C’è una frattura che attraversa l’America di Donald Trump e che, vista dall’Europa – e dall’Italia in particolare – appare tanto clamorosa quanto rivelatrice: quella tra una retorica cristiana messianica, esibita come marchio identitario, e una prassi politica che smentisce il Vangelo nei suoi gesti più elementari. Non è una questione di confini o di sicurezza nazionale. È una questione di coerenza morale.
L’appello dei vescovi cattolici della Florida, guidati dall’arcivescovo di Miami Thomas Wenski, è stato di una sobrietà disarmante. Nessuna contestazione ideologica, nessuna negazione del diritto dello Stato a far rispettare la legge. Al contrario: un riconoscimento esplicito che il confine è stato messo in sicurezza e che gran parte dei criminali è già stata rimpatriata. Proprio per questo, osservano i vescovi, ciò che resta oggi sono soprattutto lavoratori, uomini e donne che tengono in piedi agricoltura, edilizia, sanità, servizi. Persone, non slogan.
Chiedere una sospensione delle retate nel tempo di Natale non era un atto politico, ma un gesto simbolico di umanità, un richiamo minimo a quel cristianesimo che l’attuale presidente ama evocare come fondamento della propria missione storica. E invece, dalla Casa Bianca è arrivata una risposta glaciale: business as usual. Nessun riferimento al Natale, nessun accenno alla dignità umana, solo la rivendicazione di una promessa elettorale mantenuta.
Qui sta l’incoerenza profonda. Il cristianesimo di Trump – spesso presentato come baluardo contro il relativismo e la decadenza morale – non ha nulla dell’Incarnazione. Non scende nella storia concreta degli uomini, non si lascia disturbare dai volti, dalle famiglie, dalla paura che attraversa i quartieri e le parrocchie. È un cristianesimo senza mangiatoia, senza fuga in Egitto, senza stranieri da accogliere. Un cristianesimo ridotto a cornice identitaria, utile per mobilitare consensi ma incapace di misericordia.
L’arcivescovo Wenski lo dice con parole evangelicamente precise: quando l’applicazione cieca della legge “inevitabilmente” colpisce anche chi non è criminale ma semplicemente lavora, allora la legge ha bisogno di essere razionalizzata e umanizzata. Non abolita. Umanizzata. È un principio che la Dottrina sociale della Chiesa ribadisce da decenni e che papa Francesco ha tradotto in una formula semplice e scomoda: la realtà viene prima dell’ideologia.
Colpisce, in questo senso, l’immagine del vescovo che prega il rosario sotto il sole cocente davanti a un centro di detenzione ribattezzato “Alligator Alcatraz”, e poi celebra la Messa al suo interno. È una Chiesa che entra nei luoghi della disumanizzazione per restituire un nome e un volto. È l’esatto contrario di una politica che produce paura come effetto collaterale accettabile.
Per un osservatore italiano, abituato a vedere il cristianesimo piegato tanto al sovranismo quanto al progressismo, la lezione è chiara: quando la fede diventa mitologia del potere, perde la capacità di giudicare il potere stesso. E quando il Natale non basta neppure a sospendere una macchina repressiva ormai rivolta contro i lavoratori più che contro i criminali, allora non siamo davanti a una politica “dura ma giusta”, bensì a una religione civile svuotata del suo cuore.
Il Vangelo non chiede agli Stati di rinunciare alle leggi. Chiede di non perdere l’uomo mentre le applicano. Tutto il resto – anche quando si ammanta di croci e di promesse salvifiche – non sta né in cielo né in terra.
