L’intelligenza artificiale non è più il futuro: è già presente, e sta cambiando il modo in cui viviamo e lavoriamo.

Nel giro di pochi mesi, colossi come IBM, Salesforce, UPS e JPMorgan Chase hanno ridotto il personale, sostituendo centinaia di impiegati con chatbot o sistemi automatizzati. Le aziende lo chiamano “ottimizzazione”, ma dietro questa parola ci sono volti, famiglie, sogni interrotti.

I dati parlano chiaro: i giovani laureati faticano a trovare lavori di base più di quanto accadesse da dieci anni, e i sondaggi dicono che molti lavoratori temono più l’IA di qualsiasi altra minaccia tecnologica.

È solo l’inizio. Quella che stiamo vivendo non è una crisi passeggera, ma una trasformazione strutturale del lavoro, che cambierà la nostra economia e — se non stiamo attenti — anche la nostra umanità.

I Papi e la bussola per non smarrirsi

In questa rivoluzione silenziosa, la voce della Chiesa suona profetica e sorprendentemente concreta.

Giovanni Paolo II, in Laborem exercens, ricordava che “il lavoro è per l’uomo, non l’uomo per il lavoro”: una frase che oggi dovremmo tradurre così — la macchina è per l’uomo, non l’uomo per la macchina.

Benedetto XVI, in Caritas in veritate, metteva in guardia dal “rischio tecnocratico”, cioè dalla tentazione di credere che la tecnica si basti da sola, senza una direzione etica.

Papa Francesco, nel suo messaggio per la Giornata mondiale della pace 2024, ha chiesto un “governo umano dell’intelligenza artificiale”, parlando di una vera e propria “algor-etica”: un’etica degli algoritmi, capace di custodire la dignità e la libertà di ciascuno.

La sintesi di queste voci è semplice e potente: l’innovazione è buona solo se serve la persona. Quando la tecnologia diventa un fine, e non un mezzo, allora non è più progresso: è dominio.

Una sfida politica e morale

Il rischio più grande non è la disoccupazione in sé, ma l’indifferenza.

Se i governi non interverranno con politiche giuste e lungimiranti, il vuoto sarà riempito da chi offre risposte facili: più protezionismo, meno immigrati, più paura. È già accaduto in passato, e potrebbe accadere di nuovo.

La dottrina sociale della Chiesa suggerisce invece un’altra strada: riqualificare, accompagnare, regolare, non punire.

Serve un grande patto educativo e sociale per garantire a chi perde il lavoro nuove competenze e nuove opportunità; servono regole chiare per la trasparenza degli algoritmi e la responsabilità delle aziende; serve una rete di sicurezza che non lasci soli i più fragili.

Ma serve anche qualcosa di più profondo: una visione del lavoro come vocazione, non come costo da tagliare.

Papa Francesco lo ripete spesso: “Il lavoro non è una merce, ma il modo in cui l’uomo partecipa all’opera di Dio”.

In questa prospettiva, il lavoro è relazione, cooperazione, creatività condivisa. Tutto ciò che l’IA non può imitare.

L’uomo al centro

C’è un modo evangelico di guardare a questo tempo: non come a un disastro annunciato, ma come a una chiamata al discernimento.

Non dobbiamo temere l’intelligenza artificiale: dobbiamo educarla, come si educa una forza potente. E dobbiamo farlo insieme, come società, come comunità di credenti, come cittadini.

La vera sfida non è rendere l’IA “più intelligente”, ma rendere noi più umani.

Perché la macchina può scrivere, calcolare, prevedere. Ma non può amare, perdonare, sperare.

E senza queste tre parole — amore, perdono, speranza — nessun algoritmo salverà il mondo del lavoro.