A Monte Sole, luogo di memoria e di coscienza, il cardinale Matteo Zuppi ha trasformato un elenco di nomi in un atto profetico: dare voce ai bambini uccisi in Medio Oriente e chiedere a tutti di interrogarsi, senza alibi, sulla propria responsabilità nella costruzione della pace.

A volte, il gesto più rivoluzionario è pronunciare un nome. Non come numero di una statistica, ma come persona unica e irripetibile. È ciò che ha fatto il cardinale Matteo Zuppi a Monte Sole, scandendo i nomi dei bambini israeliani e palestinesi uccisi, mentre la guerra continua a travolgere vite innocenti. Un atto che non è solo memoria, ma denuncia e invocazione.

Zuppi non si è limitato a condannare la violenza: ha posto una domanda che brucia — «Abbiamo fatto tutto quello che potevamo per la pace?». Non un interrogativo retorico, ma un esame di coscienza collettivo, che riguarda governi, istituzioni internazionali, media e ciascuno di noi. La sua voce, ferma e paterna, si inserisce nella tradizione di una Chiesa italiana che, con gesti concreti e diplomazia paziente, non smette di cercare varchi di dialogo anche quando le porte sembrano blindate.

Il contesto scelto non è casuale: Monte Sole, luogo del martirio di innocenti durante la Seconda guerra mondiale, diventa specchio della nostra epoca. Qui il sangue di Abele, per usare le parole bibliche, continua a gridare. E il grido oggi viene da Gaza, da Sderot, da Khan Younis, da Tel Aviv: è il pianto di bambini che, come ricordava Elie Wiesel, «non sono figli di assassini o di vittime, sono bambini».

L’appello di Zuppi, pur intriso di spiritualità, è anche profondamente politico nel senso più alto: non si schiera con una parte, ma con la parte di Dio, quella che difende la dignità umana senza eccezioni. La diplomazia vaticana — e con essa quella della Conferenza Episcopale Italiana — trova qui una sintesi perfetta: sensibilità pastorale e concretezza operativa. È la stessa logica che ha guidato missioni difficili, dall’Ucraina al Sud Sudan, e che oggi si misura con il Medio Oriente lacerato.

La forza di questo intervento sta nella capacità di disinnescare le letture polarizzanti, le retoriche di parte e le indifferenze anestetizzanti. La Chiesa italiana, sotto la guida di Zuppi, non teme di farsi voce scomoda in un tempo in cui la pace viene spesso relegata a slogan. E lo fa senza illudersi: la pace non si improvvisa, si costruisce con il lavoro paziente di chi semina fiducia là dove regna il sospetto.

Le lacrime di un bambino, ricordava Dostoevskij, pesano più di qualsiasi rivoluzione o vittoria militare. Zuppi ha scelto di partire da quelle lacrime per chiedere un cambio di passo. Perché la vera domanda non è se la pace sia possibile, ma se abbiamo ancora il coraggio di volerla davvero.