L’immunità confermata per un solo voto mostra una verità scomoda: l’Europa è divisa non solo sui confini, ma sui valori. La vicenda di Ilaria Salis mette a nudo la fragilità del progetto comune tra diritto, politica e percezioni opposte di giustizia.

Una vittoria “a un voto” e un’Europa spaccata

Un solo voto. Trecentosei contro trecentocinque. È bastato questo per salvare l’immunità di Ilaria Salis, l’eurodeputata di Alleanza Verdi-Sinistra, ex detenuta in Ungheria con accuse di aggressione aggravata durante una manifestazione antifascista. La plenaria del Parlamento europeo ha confermato la decisione della commissione giuridica (JURI), respingendo la richiesta del governo di Viktor Orbán di revocare la protezione parlamentare.

Tecnicamente, si tratta di un atto di garanzia: l’immunità non è un privilegio, ma uno strumento per difendere l’indipendenza del Parlamento da interferenze giudiziarie. Eppure, il risultato di Strasburgo non ha il sapore di una decisione giuridica, bensì quello di una battaglia politica. Un voto che divide, che riaccende la polarizzazione e che misura — ancora una volta — quanto l’Europa sia fragile quando deve difendere i propri valori in modo coerente.

Dall’Ungheria all’Europa: due linguaggi inconciliabili

Il caso Salis non è solo una vicenda giudiziaria: è diventato un simbolo, una lente che ingrandisce la distanza fra due modelli di democrazia.

In Ungheria, la propaganda di governo l’ha dipinta come una “terrorista” e “criminale ideologica”, un simbolo della “decadenza morale dell’Occidente liberal”. Nei media vicini a Orbán, il suo volto è servito a rafforzare la narrativa del “nemico interno”, di un’Europa ipocrita che si indigna per lo stato di diritto a Budapest ma chiude gli occhi davanti ai “suoi estremisti”.

Per la maggior parte dell’opinione pubblica europea, invece, Salis è diventata il volto di un’ingiustizia: mesi di detenzione in condizioni umilianti, processi rinviati, diritti elementari negati. È in questo scontro di percezioni che si misura la crisi culturale dell’Unione: la difficoltà di trovare un linguaggio comune per parlare di libertà, di giustizia e di responsabilità personale.

Polarizzazione e doppie letture

Il voto di Strasburgo è stato vissuto da destra e sinistra come un referendum ideologico.

Per la sinistra europea — che ha esultato in Aula tra abbracci e lacrime — è una vittoria dello stato di diritto, della democrazia e dell’antifascismo. “La resistenza funziona”, ha scritto la stessa Salis, con un linguaggio da militanza civile più che da diplomazia parlamentare.

Per la destra, invece, è l’ennesima dimostrazione di doppi standard: “Bruxelles protegge i suoi”, ha attaccato Orbán. Il leghista Matteo Salvini ha gridato al “tradimento”, accusando gli alleati del PPE di aver “svenduto la giustizia per calcolo politico”. E dentro lo stesso Partito Popolare, la tensione è palpabile: Manfred Weber aveva garantito il voto per la revoca, ma il risultato finale mostra che una parte del centrodestra ha scelto diversamente.

La frattura è profonda: non solo tra gruppi, ma dentro i partiti. È il segno di una politica europea che non riesce più a distinguere tra diritto e consenso, tra garanzie istituzionali e appartenenze ideologiche.

L’ombra dell’Ungheria e la fragilità del diritto europeo

L’Ungheria di Orbán ha giocato questa partita con astuzia politica. Sapendo che la richiesta di revoca dell’immunità aveva scarse possibilità di successo, ha sfruttato la vicenda per rilanciare la propria offensiva contro Bruxelles. “L’Europa predica bene e razzola male”, ha scritto il premier su X, accostando Salis a Péter Magyar, oppositore interno accusato di insider trading, anch’egli rimasto immune da procedimenti.

Ma la strategia di Budapest ha avuto comunque un effetto: ha obbligato l’Europa a esporsi. Ha costretto Strasburgo a scegliere tra difendere le proprie regole — che prevedono la tutela dell’immunità salvo casi di reato legato alla funzione — e cedere alla pressione mediatica. La scelta, per un solo voto, è stata quella della coerenza giuridica. Ma l’esito, così risicato, mostra che il diritto stesso rischia di diventare ostaggio della politica.

E adesso? Tra immunità e processo

La conferma dell’immunità non chiude la vicenda. Anzi, apre una nuova fase.

Il Parlamento europeo ha riconosciuto a Salis il diritto a non essere perseguita per atti anteriori all’elezione, finché resta in carica. Ma la giustizia ungherese potrà riprendere i procedimenti una volta terminato il mandato. Il fascicolo, dunque, non è archiviato: è sospeso.

Resta poi il nodo diplomatico: Budapest ha già annunciato che “valuterà le conseguenze politiche” del voto. E non è escluso che Orbán possa usare il caso Salis come ulteriore arma di scontro con Bruxelles, proprio mentre l’Unione discute la proroga dei fondi vincolati al rispetto dello stato di diritto.

Sul fronte interno, invece, Salis si trova ora in una posizione ambivalente: simbolo per i suoi sostenitori, bersaglio per i suoi detrattori. In un Parlamento europeo in campagna elettorale permanente, ogni suo gesto rischia di essere letto come provocazione o bandiera.

Il significato profondo di questo voto

Al di là dei titoli e delle polemiche, la decisione di Strasburgo dice qualcosa di più profondo sull’Europa.

Che l’immunità parlamentare esista non per proteggere le persone, ma per proteggere le istituzioni. Che il diritto non può essere subordinato alla simpatia o all’antipatia per un personaggio politico. Ma anche che l’Unione vive un momento di profonda sfiducia reciproca: tra Paesi, tra partiti, tra cittadini e istituzioni.

La vicenda Salis diventa così una parabola del tempo presente: una democrazia che, nel difendere i suoi strumenti, rischia di apparire divisa; una politica che trasforma ogni caso giudiziario in una battaglia di appartenenza; un’Europa che, pur di restare unita, deve sopportare di mostrarsi fragile.

Ilaria Salis è salva. Ma a salvarsi, per ora, è solo il principio d’immunità.

La democrazia europea, invece, resta appesa a un voto di differenza: segno che la coerenza tra diritto e giustizia è diventata un bene raro. Il voto di Strasburgo non chiude la polemica, ma la rilancia: perché ci ricorda che, oggi più che mai, lo stato di diritto non è un automatismo — è una scelta quotidiana, fragile, da rinnovare ogni giorno.