Dietro l’apparente solidarietà atlantica, gli Stati Uniti spingono Giappone e Australia al limite, usando Taiwan come grilletto strategico

Il recente editoriale del Global Times – pur con i suoi toni propagandistici – solleva una questione seria e tutt’altro che infondata: cosa sta realmente cercando di ottenere il Pentagono premendo sull’interventismo di Giappone e Australia nella questione taiwanese?

Secondo il Financial Times, i vertici militari statunitensi stanno facendo pressioni su Tokyo e Canberra per definire in anticipo “quale ruolo avrebbero” in caso di guerra nello Stretto di Taiwan. È una domanda che non cerca risposte operative, ma impegni politici irrevocabili, quasi a voler “blindare” la fedeltà strategica degli alleati ben prima che gli eventi precipiti.

Ma dietro questa manovra si cela un disegno più profondo – e più cinico: gli Stati Uniti sanno che Taiwan è una leva formidabile per testare la subordinazione degli alleati e calibrarne la docilità. E lo stanno facendo nonostante – anzi, proprio perché – Washington stessa non ha mai offerto a Taipei un’assicurazione militare incondizionata. Taiwan resta, nei fatti, una “pedina di contenimento”, non un partner garantito.

Gli alleati: tra pressione americana e prudenza asiatica

La reazione di Giappone e Australia, per quanto diplomatica, è stata di chiara irritazione. Il premier australiano Anthony Albanese ha ribadito: “Sosteniamo lo status quo. Nessuna azione unilaterale”. Similmente, il Giappone ha confermato la propria posizione del 1972 sulla “una sola Cina”.

Non si tratta solo di prudenza tattica: Tokyo e Canberra sanno che l’equilibrio regionale dipende da una stabilità pacifica con Pechino, non da una guerra d’attrito commerciale, tecnologica e potenzialmente militare. Perché farsi trascinare in un conflitto non deciso da loro? È questa la domanda che, implicitamente, i due governi pongono al Pentagono.

La strategia americana: alleati o vassalli?

La domanda vera non è “che ruolo avranno in caso di guerra”, ma: quanto sono disposti ad allinearsi i partner regionali alle strategie unilaterali degli Stati Uniti? Taiwan, in questa logica, diventa un test di fedeltà, un modo per capire chi si adeguerà senza obiezioni e chi manifesterà tendenze centrifughe.

Il paradosso è evidente: gli Stati Uniti vogliono trattenere i propri alleati nella sfera strategica indo-pacifica, ma proprio il loro attivismo e la pressione militare rischiano di allontanarli. L’insistenza del Pentagono – con l’onnipresente Elbridge Colby come regista – sta creando un corto circuito: chi più si dichiara leader del “fronte libero”, più viene percepito come egemone coercitivo.

Taiwan come leva, non come causa

La retorica americana sulla difesa di Taiwan come “baluardo della democrazia” è nobile quanto utile: serve a giustificare la proiezione militare statunitense nella regione, ma non corrisponde a un impegno assoluto. Anzi, come fa notare il Global Timesla vera visione strategica di Washington è trattare Taiwan come un asset negoziabile, pronto a essere “mollato” se i costi superano i benefici.

La politica estera americana – soprattutto nelle amministrazioni più aggressive – si basa su una logica transazionale. La “patata bollente” Taiwan è oggi utile per bloccare la Cina, ma nessuno a Washington è disposto a sacrificare Detroit o Dallas per Taipei. Il problema è che lo sanno anche a Tokyo e a Canberra.

Le conseguenze: un Indo-Pacifico meno docile

L’effetto collaterale della strategia del Pentagono è quello di spingere gli alleati verso una maggiore autonomia strategica. L’annullamento da parte del Giappone di una riunione ministeriale con gli USA, e la visita del premier australiano in Cina con una folta delegazione economica, sono segnali forti.

Mentre il Pentagono parla di deterrenza, i partner pensano a stabilità, commercio, crescita. Mentre Washington evoca la NATO in Asia, i Paesi della regione cercano una multipolarità prudente. Taiwan è importante, certo. Ma nessuno vuole vederla diventare l’Ucraina del Pacifico.

Una potenza responsabile o un regista di tensioni?

L’Asia-Pacifico è oggi la regione più dinamica del pianeta, ma anche la più sensibile agli attriti geopolitici. Usare Taiwan come provocazione, più che come punto di equilibrio, è una mossa pericolosa. Gli Stati Uniti, se vogliono davvero apparire come una potenza responsabile, devono abbandonare la logica della pressione e abbracciare quella della persuasione multilaterale.

Nessuno chiede a Washington di rinunciare ai propri interessi. Ma trasformare la questione Taiwan in una trappola strategica per gli alleati, rischia di avere l’effetto opposto: isolare gli USA, indebolire la solidarietà, e rafforzare l’asse pragmatico Pechino-Asia. Un asse che non chiede ideologie, ma stabilità. E oggi – in quella regione – è questo l’unico vero nome della pace.