L’11 luglio 2025, sulle montagne del Kurdistan iracheno, si è compiuto un gesto carico di dolore e di speranza. I combattenti del PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, hanno dato fuoco alle armi. Una pira silenziosa, sobria, circondata da pochi testimoni, ha segnato la fine ufficiale della lotta armata iniziata oltre quarant’anni fa. Non c’erano trionfi, né proclami. Solo un gesto antico e simbolico, quasi evangelico: disfarsi di ciò che ferisce, per scommettere sulla pace.
Abdullah Öcalan, il leader storico del movimento, ha rotto un silenzio lungo venticinque anni per dirlo chiaramente: “La guerra è finita. Inizia l’era della politica e della convivenza democratica”. Ed è proprio qui che si gioca la partita più difficile: perché la pace vera non è solo l’assenza di armi, ma il riconoscimento della dignità di un popolo.
Un popolo disarmato ha bisogno di protezione
Chi conosce da vicino la realtà del Kurdistan sa che la lotta curda non è stata solo armata. È stata, e resta, una lotta per la sopravvivenza culturale, linguistica, politica e spirituale. Il popolo curdo ha spesso difeso la sua esistenza con le mani nude: proteggendo minoranze come gli yazidi e i cristiani durante l’avanzata dell’ISIS, offrendo modelli di convivenza in territori segnati da odio e divisione.
Come missionario, ho incontrato famiglie curde ferite eppure ospitali, anziani che narrano storie di esilio e bambini che sognano in una lingua che non hanno il diritto di studiare. So che oggi hanno rinunciato a difendersi con le armi, ma non possono rinunciare anche alla loro voce.
Pace imposta o giustizia promessa?
La cerimonia dell’11 luglio è servita anche ad Ankara, che ne ha fatto un rito utile alla propria stabilità politica. Ma la pace non può essere unilaterale. La Turchia, come comunità internazionale, è ora chiamata a offrire più che celebrazioni: deve garantire protezione giuridica, spazio politico, rispetto per l’identità curda. Altrimenti, il disarmo rischia di diventare un atto di resa, non un passo verso la riconciliazione.
Papa Francesco ci ricorda che “non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono”. Ma il perdono non può essere chiesto a senso unico. Il popolo curdo ha fatto un gesto forte e gratuito. Ora ha diritto a essere riconosciuto. Non solo usato, né dimenticato.
Il Vangelo nella carne del popolo curdo
Noi, Chiesa missionaria, non possiamo restare spettatori. Il Vangelo che annunciamo si incarna nella storia dei popoli. E oggi la carne ferita del popolo curdo è terra di missione: perché ci chiede di accompagnare la loro pace con la nostra voce, la loro attesa con la nostra presenza, la loro storia con la nostra memoria.
Se il fuoco ha bruciato le armi, non lasciamo che bruci anche la speranza. Il Signore della pace veglia su ogni popolo che depone la spada. Ma chiede a noi di vegliare sulla loro dignità.