La notte scorsa, al liceo Righi della Capitale, un gruppo di circa trenta giovani armati di caschi e bastoni con gli adesivi di Gioventù Nazionale, ha tentato di forzare l’ingresso durante l’occupazione studentesca, scandendo slogan nostalgici del Ventennio. Un episodio che riporta nell’attualità ombre antiche e pone interrogativi seri sul clima educativo e civico del Paese. Proprio poche settimane fa, nell’incontro giubilare di ottobre con studenti ed educatori, papa Leone XIV aveva richiamato con forza la responsabilità della scuola come “cantiere di pace e libertà, dove il confronto non teme le differenze e la memoria non si cancella, perché una democrazia che dimentica si ammala”. Oggi, quell’ammonimento risuona più urgente che mai.
C’è un’immagine che non vorremmo più vedere: giovani che, invece di entrare in un liceo con libri e quaderni, vi si presentano con caschi, bastoni e slogan che appartengono alla stagione più buia della nostra storia. È accaduto al liceo Righi di Roma, dove un gruppo di circa trenta ragazzi, riconducibili secondo gli studenti a un’area militante di estrema destra, ha tentato di forzare un’occupazione studentesca gridando “Duce, Duce”.
Si può discutere delle occupazioni — e lo si può fare legittimamente, nella pluralità delle posizioni e nella responsabilità educativa — ma non si discute mai sulla condanna della violenza e dell’intimidazione politica. La democrazia vive di parole, non di bastoni; di confronto, non di incursioni notturne.
La memoria non è un optional
L’episodio non è solo cronaca: è un monito. Quando ritorna il linguaggio del Ventennio, anche solo in caricatura o travestito da goliardia, significa che qualcosa nel patto educativo e civico si sta incrinando. Come ricordava Giorgio La Pira: “La pace non è solo assenza di guerra, ma costruzione di fraternità”.
La memoria del nostro Paese, ferita dalla dittatura, dal manganello e dal bavaglio, non può essere relativizzata o lasciata ai margini. Non tutte le idee si equivalgono: quelle che negano libertà e dignità non sono opinioni come le altre, ma ferite aperte nella coscienza collettiva.
Giovani e politica: la posta in gioco
È facile etichettare tutto come “scontro tra estremi”. È più difficile ascoltare, educare, accompagnare. In questo tempo complesso, segnato da paura del futuro, precarietà, fratture sociali, i giovani cercano senso e appartenenza. E dove manca un orizzonte condiviso, attecchiscono scorciatoie identitarie, nostalgie artificiose, muscolarità sterile.
La Dottrina sociale della Chiesa ricorda che educare significa generare al bene comune, non a logiche di branco. Nella scuola — e nella società — non servono tifoserie ideologiche, ma artigiani di dialogo.
Chi governa, chi educa, chi guida
A chi ha responsabilità pubbliche spetta una parola chiara:
non basta prendere le distanze; occorre costruire contesti dove simili fenomeni non trovino terreno fertile.
Ai dirigenti scolastici, agli insegnanti, ai genitori, ai sacerdoti e agli educatori chiediamo ciò che papa Francesco chiama “la pazienza artigianale della formazione”: stare nei conflitti, senza fuggire né minimizzare, ma anche senza cedere alla tentazione della durezza ideologica.
Come credenti sappiamo che la dignità è il primo mattone della polis cristiana. Chi umilia, minaccia o aggredisce non costruisce futuro.
La scelta degli studenti
Colpisce che, davanti alla provocazione, i ragazzi abbiano resistito senza scontro fisico. Non è poco. È un segno di maturità civile, di cui essere grati. Domani manifesteranno: non tutti con le stesse idee, ma molti con lo stesso desiderio — una scuola viva, che non si piega all’odio e non rinuncia al pensiero.
Una società che ha paura dei giovani sbaglia. Ma anche i giovani possono sbagliare.
Ciò che la democrazia chiede è semplice e radicale: che nessuno imponga il silenzio all’altro con la forza.
La scuola è laboratorio fragile e decisivo della nostra convivenza.
Difenderla significa non chiudere gli occhi. Significa dire, con mitezza e fermezza:
La violenza non ha futuro.
La memoria non è negoziabile.
La libertà non si impone: si testimonia.
E per questo, oggi più che mai, abbiamo bisogno di insegnanti, famiglie e comunità cristiane capaci di formare cittadini che scelgono la parola al posto del grido, il confronto al posto dello scontro, la fraternità al posto del dominio.
È lì che nasce la pace.
È lì che rinasce l’Italia migliore.

Una cattiveria gratuita legittimata da chi è al potere?