Un autobus pieno di pendolari, un incrocio trafficato a Ramot, nord di Gerusalemme. In pochi secondi, la normalità è diventata incubo: due uomini armati aprono il fuoco, uccidono sei persone — tra cui tre giovani rabbini — e ne feriscono undici. I due attentatori, palestinesi poco più che ventenni, vengono neutralizzati sul posto. L’attacco, tra i più gravi degli ultimi mesi, è stato definito da Hamas una “risposta naturale”, pur senza rivendicarlo.

Tra le vittime, anche Yaakov Pinto, 25 anni, originario di Melilla, e il rabbino Levi Yitzhak Fash, figura molto nota nella scuola Kol Torah. L’arma usata — una mitraglietta artigianale “Carlo” — è la stessa già vista in altri attentati simili. Intanto, l’intelligence israeliana ha arrestato un sospetto che avrebbe accompagnato i due sul luogo dell’attacco.

Il premier Netanyahu ha parlato di “guerra su più fronti contro il terrorismo”, mentre l’estrema destra di governo invoca misure ancora più dure, compreso lo smantellamento dell’Autorità Palestinese. Ma questa spirale non si ferma con la forza: ogni risposta solo repressiva rischia di alimentare ulteriore odio.

L’Occidente condanna, ma resta in attesa. E la pace, intanto, continua a restare ostaggio di chi spara nei luoghi della vita quotidiana. Serve coraggio politico per tornare a parlare di soluzione, non solo di sicurezza. Perché Gerusalemme — città di fede e di dolore — non può sopportare ancora l’assenza di futuro.