La coscienza del mondo si muove

Il rapporto della Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite sul conflitto a Gaza è stato netto: Israele, nelle sue operazioni militari, avrebbe commesso un genocidio contro la popolazione palestinese. Un’accusa gravissima, respinta con forza dal governo di Tel Aviv, che ribadisce di colpire Hamas e non i civili. Eppure le immagini di interi quartieri rasi al suolo, ospedali distrutti, famiglie spazzate via e bambini presi di mira restano una ferita aperta nella coscienza globale.

Non sorprende che, proprio mentre l’ONU mette nero su bianco la parola “genocidio”, un numero crescente di Paesi abbia deciso di compiere un passo politico senza precedenti negli ultimi decenni: riconoscere ufficialmente lo Stato di Palestina. Domenica scorsa è toccato a Regno Unito, Canada, Australia e Portogallo, dopo che già Francia e Belgio avevano annunciato la stessa intenzione. Un allineamento che porta a 147 gli Stati membri delle Nazioni Unite che oggi riconoscono la Palestina.

Il significato è duplice. Da un lato, si tratta di un gesto simbolico che intende restituire dignità e visibilità a un popolo da troppo tempo relegato a “questione” e non riconosciuto come soggetto politico. Dall’altro, le implicazioni sono pratiche: chi riconosce la Palestina deve adeguare i rapporti con Israele a questa nuova realtà, rivedendo accordi commerciali e diplomatici che possano implicare una complicità nell’occupazione. È, in altre parole, un modo per aumentare la pressione internazionale su Israele affinché interrompa pratiche che violano il diritto internazionale.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha reagito parlando di “premio al terrorismo”. È la stessa logica che da decenni blocca ogni possibilità di soluzione a due Stati: vedere nella Palestina solo una minaccia, mai un interlocutore. Ma la storia dimostra che la sicurezza non si ottiene cancellando l’altro, bensì riconoscendolo.

Il riconoscimento della Palestina non risolve da solo la tragedia di Gaza. Non ferma le bombe, non restituisce la vita a chi l’ha persa. Ma è un atto politico e morale che ribadisce un principio essenziale: un popolo non può essere lasciato senza diritti, senza futuro e senza nome.

Il Papa lo ha ripetuto all’Angelus: “Non c’è futuro basato sulla violenza e sulla vendetta”. Lo stesso grido che ora sembra affiorare, timidamente ma con forza, anche nelle cancellerie occidentali. Forse non basterà a invertire subito la rotta, ma segna un punto di svolta: il mondo non può più voltarsi dall’altra parte.

Se davvero l’unica via d’uscita dal conflitto è quella dei due Stati, come prevede il diritto internazionale e come chiede la coscienza dell’umanità, allora il tempo di riconoscere la Palestina non è domani: è adesso.