La tregua annunciata fra Israele e Hamas è una svolta possibile, non ancora compiuta. Ha il merito di rimettere al centro vite concrete—gli ostaggi, i feriti, le famiglie senza pane—ma sarà credibile solo se dalle parole si passerà a liberazioni verificabili, corridoi umanitari stabili e una rotta politica per il “giorno dopo” a Gaza, con responsabilità chiare per tutti.

C’è un momento, nelle guerre, in cui anche le parole più consumate riacquistano peso. “Cessate il fuoco”: due parole semplici, logorate da mesi di uso inconcludente, che oggi tornano a suonare come una possibilità reale. La tregua annunciata—con lo scambio tra ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi, il parziale riposizionamento delle forze israeliane e l’impegno ad aprire la valvola degli aiuti—non è la fine della guerra. Ma è il primo lembo di futuro afferrabile dopo una stagione che ha macinato vite, città, fiducia.

Il suo valore sta anzitutto nel gesto umano: riportare a casa i vivi, restituire i morti, riabbracciare chi si pensava perduto. Ogni volta che un ostaggio esce dal buio, ogni volta che una salma supera un valico, la retorica lascia spazio alla sostanza. È un dovere morale prima che politico, e non deve essere barattato con slogan di comodo. La liberazione di tutti gli ostaggi e dei prigionieri previsti deve avvenire in tempi certi e verificabili, senza scarti tattici o calcoli di propaganda. L’umanità delle parti in causa si misura qui.

La tregua, poi, promette di far respirare Gaza. Pane, acqua, medicine: parole piccole che pesano più dei comunicati. Non basteranno poche ore di convogli: serviranno corridoi continui, protetti, ben coordinati, perché la fame non riconosce la grammatica dei tavoli negoziali. Su questo punto si giudicherà la serietà degli attori esterni: chi ha influenza apra davvero valichi, metta in campo logistica, denaro, personale sanitario, capacità di ripristinare almeno minimi servizi. Smettiamo di usare l’espressione “aiuti umanitari” come un’astrazione: sono camion, motopompe, sacchi di farina, incubatrici, carburante, tecnici, scorte. E servono adesso.

Ma una tregua non regge soltanto sul lato umanitario. Regge se ha geometrie chiare e garanzie. A cosa corrisponde esattamente il riposizionamento militare? Quali sono le linee, chi le monitora, chi interviene se qualcosa salta? E soprattutto: qual è il meccanismo di de-escalation quando—perché succederà—un gruppo decide di sabotare l’intesa con un razzo, un colpo isolato, un attentato? Le tregue si rompono spesso non per “il grande no”, ma per l’assenza di un protocollo di crisi. Se la finestra si chiude al primo imprevisto, torneranno a parlare le armi. Se invece c’è un dispositivo riconosciuto per assorbire gli urti, una tregua diventa processo.

La domanda più impegnativa è quella del “giorno dopo”. Chi governerà Gaza? In quale cornice istituzionale e di sicurezza? Che rapporto ci sarà con l’Autorità Palestinese? Quale ruolo potrà assumere una forza di stabilizzazione a guida internazionale? Nessuna tregua è eterna; lo diventa solo se apre politicamente una strada. È giusto che oggi la priorità sia salvare vite e fermare i bombardamenti, ma è ingenuo pensare che senza un progetto politico—con tappe, scadenze, verifiche—non si ricaschi presto nel pendolo noto: tregua, incidente, raid, rappresaglia.

C’è poi il nodo che molti fingono di non vedere: la sicurezza d’Israele e la sicurezza dei palestinesi non stanno su due piatti in contrappeso. Stanno sulla stessa bilancia. Un Israele che non vive più sotto la minaccia di incursioni e razzi è condizione di pace; un popolo palestinese non più prigioniero di macerie, assedi e umiliazioni è anch’esso condizione di pace. La politica vera comincia quando si smette di vendere sicurezza agli uni come sottrazione di diritti agli altri. E la comunità internazionale ha qui un compito grandissimo: garantire, accompagnare, pretendere. Garantire la protezione dei civili, accompagnare le riforme necessarie, pretendere rispetto del diritto internazionale e accountability quando è violato.

Si dirà: è tutto già sentito. Ma c’è una differenza. Oggi c’è una timeline concreta—24 ore per l’entrata in vigore, 72 per i primi rilasci—e un impegno esplicito su aiuti e valichi. È poco? È esattamente quanto serve per misurare chi fa sul serio. Perché la vera forza di una tregua non è la grande firma in un palazzo, ma il ritorno dell’ordinario: famiglie che cucinano, bambini che vanno a scuola, ospedali che riaprono, telefonini che riprendono campo. L’ordinario è il più rivoluzionario dei risultati.

In queste ore qualcuno canta, qualcuno piange, qualcuno ride con pudore, qualcuno guarda l’orologio. A Gerusalemme e a Gaza, a Tel Aviv e a Rafah, nelle ambasciate che trattano e nelle case dove si prega, c’è una domanda che brucia le labbra: questa volta durerà? Non lo sapremo dalle parole, ma dai gesti ripetuti: un ostaggio che esce, un convoglio che entra, una truppa che arretra, un quartiere che non viene colpito. Ogni atto riuscito aggiunge un granello di fiducia, e la fiducia—nelle guerre come nella vita—è una piramide costruita a forza di granelli.

Per noi, lettori e credenti, questo è anche un tempo di responsabilità e di preghiera. Responsabilità: non schierarsi con la logica dell’odio, sostenere chi lavora per la pace, chiedere ai nostri governi coerenza e coraggio diplomatico. Preghiera: perché una tregua non sia solo un intervallo, ma l’inizio di una possibile riconciliazione. Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza verità, non c’è verità senza la cura testarda e quotidiana delle persone ferite.

La tregua è un ponte di legno steso su un fiume impetuoso. Attraversarlo richiede prudenza, mano ferma e sguardo lungo. Ma dall’altra parte non c’è un miraggio: ci sono i volti di chi aspetta. Per loro, e per la dignità di tutti, questo ponte va percorso fino in fondo. Ora.