Una nave cargo israeliana attraccherà oggi a Fos-sur-Mer, in Francia, per caricare in segreto quattordici tonnellate di componenti per fucili mitragliatori destinati all’esercito israeliano. Lo hanno rivelato ieri i media d’inchiesta Disclose e The Ditch. È la terza spedizione di questo tipo nel 2025, e segue di pochi mesi il “massacro della farina” del 29 febbraio, quando decine di civili palestinesi sono stati uccisi mentre cercavano di ricevere aiuti umanitari. I ricambi caricati a Marsiglia, secondo le inchieste, sono compatibili con il Negev 5, il fucile automatico usato dai soldati israeliani in quell’attacco.
Quando la complicità ha il volto del commercio
La fornitura di armamenti, accessori e tecnologie belliche a Israele da parte di Paesi europei continua a crescere, nonostante l’evidenza sempre più documentata di gravi crimini di diritto internazionale commessi a Gaza. Il governo francese, in particolare, ha autorizzato nel 2023 la vendita di armi a Tel Aviv per circa 30 milioni di euro, eludendo sistematicamente domande su tempi e modalità di consegna. Tra queste, anche sistemi elettronici per droni forniti dal colosso Thales, ritenuti compatibili con quelli impiegati nei bombardamenti dell’enclave palestinese.
Amnesty International denuncia da mesi il rischio concreto che queste forniture rendano gli Stati esportatori complici del genocidio in corso nella Striscia di Gaza. Nessuna “ragione di Stato”, nessuna logica di “equilibrio regionale” può giustificare la continuazione di affari che, di fatto, sostengono atti potenzialmente assimilabili a crimini contro l’umanità.
La coscienza nei porti: la resistenza dei lavoratori
Contro questa complicità istituzionalizzata si leva, tuttavia, una voce coraggiosa e storicamente consapevole: quella dei portuali. I lavoratori CGT del porto di Fos-sur-Mer hanno dichiarato che non caricheranno il container con i pezzi destinati a Israele. Hanno identificato il carico, lo hanno isolato, e hanno detto con chiarezza che “il porto di Marsiglia non deve servire ad alimentare l’esercito israeliano”. È un gesto di grande valore morale e civile.
Non è la prima volta che il mondo del lavoro reagisce con coscienza. In Italia, negli anni passati, i portuali di Genova rifiutarono di caricare armi destinate alla guerra in Yemen. Quei gesti sono più di semplici atti di protesta: sono esempi concreti di obiezione di coscienza operativa, esercitata laddove le istituzioni preferiscono voltarsi dall’altra parte.
L’Occidente e la retorica dei diritti: parole vuote?
La risposta dei governi europei alla crisi a Gaza è segnata da ambiguità sistemica. Se da una parte si dichiarano “preoccupati” per la situazione umanitaria, dall’altra si autorizzano forniture militari che alimentano proprio quella violenza che si finge di voler arginare. Le sanzioni restano timide, le parole non si traducono in atti, e le relazioni diplomatiche proseguono come se nulla stesse accadendo.
In questa spirale di ipocrisia, solo alcuni Paesi hanno fatto un passo concreto. La Spagna, ad esempio, ha sospeso i contratti di vendita di armi a Israele. La Francia, invece, non solo non ha sospeso nulla, ma ha continuato – come documentato da più inchieste – a concedere autorizzazioni, anche dopo l’escalation iniziata a ottobre 2023.
Genocidio e dovere di fermarsi
Amnesty International ricorda che, in base al diritto internazionale, i governi hanno il dovere di prevenire e non facilitare atti di genocidio. La continua fornitura di armi e materiali bellici a uno Stato accusato di crimini gravi può configurare una responsabilità diretta. Le istituzioni europee devono interrompere immediatamente ogni trasferimento che possa alimentare il conflitto in corso e istituire indagini indipendenti sul ruolo delle aziende coinvolte.
Nel silenzio della politica, la dignità ha preso il volto di chi lavora sulle banchine. È tempo che anche i governi si assumano la responsabilità di fermare questa spirale. Non si può difendere la pace con le armi, né i diritti umani con i profitti.
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