Diciotto anni dopo l’omicidio di Chiara Poggi, il caso torna a travolgere non solo gli indagati, ma anche chi avrebbe dovuto cercare la verità. Magistrati sotto inchiesta, consulenti che cambiano versione, famiglie devastate e un Paese che rischia di confondere la giustizia con lo spettacolo.
Ogni volta che il nome di Chiara Poggi riaffiora, la memoria collettiva italiana si scuote come di fronte a un lutto mai elaborato.
Il suo assassinio, avvenuto nel 2007 nella quiete domestica di Garlasco, non è mai riuscito a diventare un fatto del passato. È rimasto un trauma aperto, che periodicamente si riaccende, alimentato da nuove piste, vecchi rancori e infiniti protagonisti.
La riapertura dell’inchiesta da parte della Procura di Brescia ha riacceso un riflettore che non illumina più solo i fatti del delitto, ma il funzionamento stesso della giustizia italiana.
Perché questa volta a finire sotto indagine non sono solo i sospettati di allora, ma anche alcuni magistrati che ebbero un ruolo nelle decisioni cruciali di quegli anni.
E quando chi rappresenta la legge entra nel campo delle ipotesi investigative, il confine fra colpevolezza e sistema di potere si fa inquietante.
La giustizia che indaga se stessa
L’ex procuratore di Pavia Mario Venditti è oggi indagato per corruzione in atti giudiziari e peculato, in relazione alla presunta archiviazione pilotata dell’indagine su Andrea Sempio nel 2017.
Insieme a lui, l’ex sostituto Pietro Paolo Mazza, ora in servizio a Milano, coinvolto per presunte irregolarità gestionali e favori interni al cosiddetto “sistema Pavia”.
A indagarli sono i pm Francesco Prete e Claudia Moregola, della Procura di Brescia.
Una scena inedita: magistrati che indagano su magistrati, un’istituzione che scruta la propria ombra.
Le accuse – ancora da provare – raccontano però qualcosa di più profondo: il rischio che la giustizia si sia contaminata di relazioni e convenienze, perdendo la sua distanza dal potere e dai media.
La riapertura del caso Poggi, così, non è solo un atto dovuto, ma un gesto simbolico: la pretesa di purificare una verità compromessa.
Un labirinto di personaggi
Il nuovo capitolo del caso Garlasco ha il sapore di un romanzo corale, dove i ruoli cambiano a ogni pagina.
L’avvocato Massimo Lovati, difensore di Andrea Sempio, è passato da interprete tecnico a protagonista mediatico, tra teorie complottistiche e intemperanze pubbliche.
Il generale Luciano Garofano, volto televisivo e consulente della difesa, si è ritirato improvvisamente dall’incarico dopo tensioni sulla linea strategica, per poi essere ascoltato come testimone dai pm.
Le gemelle Cappa e il padre Ermanno tornano anch’essi nell’informativa della Guardia di Finanza, con accertamenti patrimoniali rimasti sospesi.
E intorno, come figure secondarie di un dramma che non finisce, ruotano Angela Taccia, l’avvocatessa ex fidanzata del frate Alessandro Biasibetti, e lo stesso Biasibetti, oggi religioso, amico di alcuni protagonisti e testimone di una rete di relazioni che unisce la provincia, la cronaca e il destino.
In questo groviglio di nomi, perfino la memoria di Chiara rischia di diventare un dettaglio narrativo.
Il nodo degli inquirenti e il silenzio del carcere
Nel frattempo, Alberto Stasi, condannato a 16 anni per l’omicidio, continua a scontare la sua pena.
I suoi legali, Antonio De Rensis e Giada Bocellari, chiedono da tempo che la nuova indagine chiarisca le zone d’ombra e gli errori del passato.
Dall’altra parte, la famiglia Poggi difende con dignità la propria richiesta di giustizia, senza alimentare il clamore.
Ma è proprio il clamore, oggi, il principale imputato.
Talk show, social network, influencer della cronaca nera: ognuno recita la propria parte.
La giustizia, che dovrebbe agire in silenzio, diventa un palcoscenico dove tutto è spettacolo e nulla è definitivo.
La scena del crimine, da luogo di dolore, si è trasformata in scena mediatica permanente.
La ricerca della verità
Chi osserva il caso di Garlasco da fuori, con occhio tecnico e mente fredda, non può non notare come questa storia abbia oltrepassato il confine della cronaca per diventare una metafora nazionale: la difficoltà dell’Italia a fidarsi della propria giustizia.
Ogni verità sembra reversibile, ogni sentenza negoziabile, ogni inchiesta a sua volta indagabile.
La verità, quella vera, resta in sospeso come un testimone che non riesce a parlare.
Ed è qui che si apre il vero interrogativo:
questa riapertura rappresenta un sincero tentativo di giustizia, o è solo un regolamento di conti dentro le Procure?
Oppure, più verosimilmente, gli inquirenti sanno già molto più di quanto i media lascino intendere, e attendono soltanto un passo falso, quella pièce à conviction capace di rompere il cerchio?
Per ora, resta il silenzio di una verità che non trova voce.
E una nazione che, guardandosi nello specchio del delitto di Garlasco, continua a chiedersi se la giustizia sia ancora un diritto o solo un racconto in divenire.