Un doganiere cristiano ucciso per aver detto no alla corruzione
Nel cuore di un’Africa devastata da conflitti dimenticati e da una corruzione che non dimentica nessuno, Floribert Bwana Chui ha scelto di rimanere uomo. Un gesto apparentemente semplice: dire no a una bustarella. Eppure, in certi luoghi e in certi sistemi, quel “no” vale più di mille proclami, ed è sufficiente per essere condannati a morte. Tre mila dollari potevano comprargli una promozione, il silenzio, forse anche una piccola villa con veranda a Goma. Invece gli hanno comprato un funerale.
Floribert aveva ventisei anni e mani pulite. Non per caso, per ostinazione. Figlio dell’est del Congo e dei suoi misteri infranti, era cresciuto dentro la fede e la giustizia come se fossero parte del proprio sangue. Mentre altri si nascondevano dietro l’inevitabile, lui si presentava a messa e nelle Scuole della Pace. Mentre altri si piegavano agli uomini armati, lui prendeva per mano i maibobo — quei ragazzi di strada di cui non si conosce mai il cognome — e diceva loro che per Dio tutti sono uguali.
Non era un eroe per vocazione. Era un funzionario doganale. Uno di quelli che controllano i camion, leggono i documenti, guardano le date di scadenza. Uno di quelli che, normalmente, ci si aspetta siano parte del problema. E invece è stato parte della soluzione. Non ha lasciato passare generi alimentari avariati. Ha preferito la verità alla convenienza, la vita della gente alla propria sicurezza.
Lo hanno picchiato, torturato, ucciso. Ma non lo hanno comprato.
E allora Floribert è diventato beato. Ma non perché voleva la gloria. La sua beatitudine non viene dai monumenti, ma dalla coerenza. Viene da una domanda fatta a una suora medico: “È pericoloso per la vita della gente autorizzare la commercializzazione di cibo scaduto?”. E da una risposta: “Sì”. Da lì, Floribert ha capito cosa doveva fare. E lo ha fatto.
Oggi la sua beatificazione, celebrata a Roma perché Goma è ancora troppo ferita, ci restituisce non un martire astratto ma un giovane con il volto del coraggio africano. Un martire dalla pelle nera e dal cuore terso. Un martire della giustizia quotidiana, quella che non fa rumore, ma cambia la storia.
Papa Francesco ha detto che “le mani che trafficano soldi si sporcano di sangue”. Floribert, con le sue mani pulite, ha mostrato che si può vivere — e morire — senza vendersi. Che la santità non è evasione, ma resistenza. Non è miracolo, ma scelta.
Il suo sangue è seme di un’Africa diversa. Un’Africa dove la corruzione non sia più la regola, ma la vergogna. Dove la fede non sia un rito, ma una presa di posizione. Dove la beatitudine sia avere il coraggio di dire no, quando tutti intorno dicono sì.
Floribert non è morto per un’ideologia. È morto per proteggere la vita dei poveri. È morto per fede. È morto perché ha scelto di non lasciarsi comprare. È morto, dunque, libero.
E in questo tempo in cui tutto ha un prezzo, lui ci ricorda che la dignità è l’unica moneta che vale anche nell’eternità.
