Quando Marshall McLuhan affermava che “il mezzo è il messaggio”, aveva già anticipato un dramma che oggi viviamo in pieno: l’evangelizzazione rischia di essere assorbita dal mezzo stesso, dalla logica delle piattaforme, dalla liturgia dell’intrattenimento. Un rischio ben compreso anche da Neil Postman, che nel 1985 metteva in guardia da un cristianesimo trasformato in spettacolo televisivo: “Il pericolo non è che la religione diventi contenuto degli show, ma che lo show diventi contenuto della religione”.

Oggi, nel tempo degli evangelizzatori digitali, questo monito suona profetico. La fede è divenuta “condivisibile”, ma anche “scorribile”, “virale”, scrollabile. E non sempre questo è un bene.

La Chiesa e i media: non paura, ma discernimento

Fin dalle sue origini, la Chiesa è stata un’opera di comunicazione. San Paolo scriveva lettere, san Giovanni usava simboli, i martiri parlavano con il corpo. San Massimiliano Maria Kolbe, nel Novecento, ha fondato riviste, stampato milioni di copie, costruito una radio spirituale quando ancora pochi avevano un microfono. Aveva intuito che il mezzo non è mai neutro: o lo domini per il Vangelo, o ti domina lui per il mondo.

Oggi il pulpito è l’algoritmo. Il problema non è che i cattolici siano presenti sui social media. È che a volte sembrano farsi plasmare da essi più di quanto riescano a plasmarli. Come avvertiva Postman, l’ambiente mediale non si limita a trasmettere contenuti: modifica la forma stessa del pensiero. La velocità, l’effetto visivo, la performance, la brevità, il pathos: tutto converge verso un’unica domanda non evangelica, ma televisiva: quanto coinvolge? E la tentazione diventa quella di misurare la grazia con i “mi piace”.

Kolbe e la spiritualità dell’efficacia

Per san Massimiliano Kolbe, la comunicazione era parte integrante della missione. Ma a una condizione: che lo strumento non cancellasse la contemplazione, la preghiera, la radicalità del dono. L’“apostolato dei mezzi” era efficace non quando diventava virale, ma quando trasmetteva l’Immacolata. Il vero influencer cristiano non è un brand, ma uno specchio. Il suo obiettivo non è mostrarsi, ma far vedere l’Altro.

Ecco perché la psicologia del medium è fondamentale per chi annuncia Cristo. Non si tratta di fare digital marketing con il Vangelo, ma di evangelizzare il digitale. Di abitare le piattaforme senza inchinarsi ai loro idoli.

Influencer o predicatore?

Il rischio, come dice ancora Postman, è che “anche se il nome di Dio è ripetuto, l’immagine prevalente è quella del predicatore”. È la conversione del messaggero, non quella del pubblico, a diventare il fine non detto. Ma il Vangelo non è uno show. È una spada che divide, una croce che salva, una verità che fa tremare.

I social impongono il culto della prestazione. L’influencer è amato solo se efficace, costante, divertente. Ma Cristo non ha chiesto tutto questo: ha chiesto di portare frutto, non numeri. Di perdere la vita, non di guadagnare followers.

Il discepolato nella cultura dell’engagement

Il problema non è l’engagement, ma la conversione che genera. Se il like diventa il nuovo amen, se l’interazione è il nuovo battesimo, allora abbiamo ceduto. L’evangelizzazione non può essere ridotta a strategie di ingaggio: deve restare un atto gratuito, una presenza che non si impone, ma interpella.

È questo il nodo centrale: l’identità del discepolo digitale. Chi è? Un predicatore della verità o un performer spirituale? Un servo della Parola o un attore del feed? Un contemplativo connesso o solo un algoritmo spirituale?

Per una nuova ascesi dei media

Servono evangelizzatori che siano mistici e analisti. Capaci di studiare le piattaforme e i loro linguaggi. Di conoscere i criteri degli algoritmi per non diventarne schiavi. Di rifondare una mistica della comunicazione, capace di restituire profondità al linguaggio, simbolismo al messaggio, e santità al mezzo.

Solo così i social non diventeranno una nuova Babilonia. Solo così il Vangelo non verrà ridotto a citazioni motivazionali. Solo così, come diceva McLuhan, il mezzo potrà diventare messaggio, ma il messaggio sarà Cristo.

Ecco perché, come direbbe Kolbe, non basta parlare dell’Immacolata. Bisogna farla regnare. Anche sui social.