Cancellare l’evidenza della vicinanza di Trump a Epstein con una strategia retorica
Un memorandum riservato guida i repubblicani americani su come reagire alla pubblicazione dei file Epstein: non chiarire, non rispondere, ma deviare, attaccare, rovesciare i ruoli. È il ritratto crudo di una politica che, di fronte all’abisso morale degli abusi e dei legami con il potere, sceglie l’arte dello scaricabarile invece della verità.
C’è qualcosa di più inquietante dei file Epstein che stanno per essere resi pubblici. Ed è il foglio che li precede. Un promemoria — così lo chiamano — distribuito ai parlamentari repubblicani, non per prepararsi a spiegare, chiarire, assumersi responsabilità, ma per imparare a schivare. Un vademecum della sopravvivenza politica, che dice molto di più delle fotografie imbarazzanti e delle relazioni torbide che tornano a galla.
Il documento non nega solo i fatti: nega l’idea stessa che i fatti contino. Suggerisce di spostare l’attenzione, di attaccare i democratici, di delegittimare i media, di trasformare ogni domanda in un’aggressione e ogni aggressione in una persecuzione. È la vecchia strategia del deny, attack, reverse victim and offender, ribattezzata con l’acronimo Darvo, ma qui applicata senza pudore, quasi con metodo scolastico. Non importa cosa emerga sui rapporti tra Donald Trump e Jeffrey Epstein: ciò che conta è impedire che la verità trovi un volto e un nome.
Il paradosso è tutto qui: per anni il caso Epstein è stato agitato come una clava contro l’“establishment”, come la prova di un sistema corrotto da smascherare. Ora che i documenti rischiano di lambire la Casa Bianca, la narrazione cambia. Non più “trasparenza”, ma “bufala”. Non più “giustizia per le vittime”, ma “complotto politico”. La verità diventa improvvisamente un dettaglio fastidioso.
Il memo è rivelatore anche per ciò che non dice. Non indica quali accuse sarebbero false, non confuta i punti concreti, non entra nel merito delle immagini, delle frequentazioni, dei contatti. Si limita a suggerire bersagli: tre nomi democratici su cui scaricare l’attenzione, come se la colpa potesse essere trasferita per prossimità, per sospetto, per insinuazione. È una politica che non difende l’innocenza, ma protegge il potere.
E mentre il gioco delle parti va in scena a Washington, sullo sfondo restano le vittime senza volto, le ragazze minorenni ridotte a merce, la rete di silenzi e complicità che per anni ha permesso a un finanziere pedofilo di muoversi indisturbato tra presidenti, miliardari, intellettuali e teste coronate. Le nuove fotografie non mostrano reati, si affrettano a dire. Ma mostrano qualcosa di forse più grave: la familiarità del male con il potere, la normalità dell’inaccettabile.
C’è un’ipocrisia che attraversa trasversalmente il mondo politico, ben oltre i confini americani. È l’ipocrisia di chi invoca la legge solo quando colpisce l’avversario, di chi brandisce la morale come arma e la mette in tasca quando diventa scomoda. In questo senso, il memo repubblicano non è un’eccezione: è una radiografia.
Alla fine, la domanda decisiva non riguarda solo Trump, né i democratici, né i media. Riguarda la qualità morale della democrazia. Se di fronte a uno scandalo che intreccia abusi sessuali e potere globale la prima risposta è un manuale per eludere le domande, allora il problema non sono solo i file Epstein. È il sistema che li teme più della verità che contengono.
