La telefonata del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a papa Leone XIV, all’indomani dell’attacco militare che ha colpito la chiesa della Sacra Famiglia a Gaza, non è passata inosservata. Tre morti, undici feriti — tra cui il parroco padre Gabriel Romanelli — e un intero luogo di culto cristiano devastato. Eppure, tutto è stato prontamente derubricato a «tragico incidente», a «munizioni vaganti». La consueta grammatica del danno collaterale.

Ma può davvero bastare una telefonata? Può bastare una formula, sempre la stessa, a giustificare l’ingiustificabile?

Il Papa ha risposto con la sobrietà e la fermezza che gli sono proprie. Nessuna indignazione retorica, ma parole lucide, pesate, irrevocabili: “Si raggiunga la fine della guerra”, “si proteggano i luoghi di culto”, “si tutelino i più fragili, i bambini, gli anziani, i malati”. Nella sua voce, un’eco lontana ma attualissima: quella di Benedetto XV che, di fronte all’ecatombe della Grande Guerra, gridava: “si fermi l’inutile strage”. Oggi, Gaza è una ferita aperta che continua a sanguinare nel corpo della comunità internazionale. E la Chiesa, come sempre, sceglie di stare dentro questa ferita, accanto a chi soffre, a chi è dimenticato, a chi non ha voce.

Il gesto di Netanyahu va letto politicamente. La sua chiamata non è solo atto diplomatico: è parte di una strategia. Dopo mesi di tensioni e accuse — basti ricordare l’ordine, vergognoso, impartito alla diplomazia israeliana di non rendere omaggio a papa Francesco alla sua morte — il governo di Tel Aviv sa bene che rompere del tutto i rapporti con Oltretevere significherebbe isolarsi anche sul piano simbolico e morale. Per questo, alla telefonata è seguita persino l’invito al nuovo Papa a visitare Israele. Una mossa che, nelle tempistiche, suona più come tentativo di disinnescare l’effetto dirompente dell’attacco alla parrocchia di Gaza che come gesto di reale apertura.

Il Papa, però, non si è fatto irretire. Nessun compiacimento, nessuna promessa. Solo la voce chiara del Vangelo: verità, giustizia, compassione.

La Santa Sede non fa sconti né si presta a operazioni cosmetiche. Come ha ricordato il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato, occorrono “fatti”, non solo parole. Serve una vera inchiesta, serve trasparenza, serve la volontà — finora assente — di porre un limite a una guerra che ha superato ogni limite: nelle cifre, nei metodi, nella disumanità.

Perché colpire una chiesa non è solo un danno fisico. È un colpo alla speranza, un tentativo (forse non del tutto involontario) di abbattere quel poco che ancora tiene unito, che modera, che riconcilia. I cristiani a Gaza sono ormai una manciata, eppure costituiscono da sempre un ponte tra mondi contrapposti, un’ancora di dialogo e umanità. Colpirli significa colpire la possibilità stessa della pace.

Non è questa la prima volta in cui un luogo sacro viene violato in questo conflitto. E ogni volta si invoca l’errore tecnico, la traiettoria sbagliata, il bersaglio mal calcolato. Ma a forza di incidenti, si costruisce un disegno. A forza di silenzi internazionali, si legittima una logica di annientamento che non ha più nemici da sconfiggere, ma solo vite da spegnere.

La voce del Papa, invece, continua a levare un “no” alla guerra che è un “sì” all’umanità. In un mondo dove tutto si relativizza, Leone XIV pronuncia parole radicali, perché radicate nell’unica verità che salva: quella dell’uomo, della sua dignità, del suo volto.

Il Medio Oriente non ha bisogno di diplomazia d’apparato, ma di conversione del cuore. E questo non avverrà con telefonate cerimoniali, ma con decisioni reali: cessate il fuoco, accesso umanitario, riconoscimento reciproco, rispetto per la vita.

Nella devastata Gaza, un parroco è stato ferito. Una parrocchia è stata sventrata. Ma il Vangelo non è andato in frantumi. Resiste nella voce della Chiesa, che non si presta a essere tappabuchi della politica, ma profezia nella storia.

Non ci basta sapere che “è stato un incidente”. Abbiamo bisogno che sia messa fine al massacro.