Per la prima volta dalla fine della Guerra Fredda, gli Stati Uniti hanno schierato un sistema missilistico a raggio intermedio – il Typhon – nelle Filippine. Era il 2024. Una mossa senza precedenti, destinata a cambiare gli equilibri nel Mar Cinese Meridionale e a inasprire il confronto strategico tra Washington e Pechino. Dietro l’apparente tecnicismo militare si cela una posta in gioco ben più ampia: la credibilità della deterrenza estesa americana, ossia la capacità degli Stati Uniti di garantire la sicurezza dei propri alleati regionali anche sotto la minaccia nucleare.
La reazione cinese è stata veemente. Accusando Washington di sabotare la stabilità asiatica, Pechino ha minacciato ritorsioni contro le Filippine e denunciato gli Stati Uniti come potenza destabilizzante. Ma più ancora delle parole, a parlare è la strategia: la Cina sta mettendo sistematicamente in discussione l’intero impianto della deterrenza estesa americana, erodendone i fondamenti diplomatici, economici e operativi.
Una strategia sistemica: logorare la fiducia
Per decenni, l’ombrello strategico statunitense ha garantito che Giappone, Corea del Sud, Australia e altri alleati potessero contare sulla protezione americana senza sviluppare capacità nucleari proprie. Ma Pechino non ha mai accettato questo equilibrio, interpretandolo come uno strumento imperiale per contenere la propria ascesa. Per il Partito Comunista Cinese, la deterrenza estesa non è difesa, ma proiezione di potenza sotto altra forma.
Così, la leadership cinese ha lanciato una campagna multilivello: delegittimare gli Stati Uniti nei consessi diplomatici, indebolirne i legami bilaterali con gli alleati attraverso pressioni e incentivi economici, e soprattutto minare la fiducia nella capacità americana di reagire in caso di crisi. A questa logica rispondono le azioni della Cina nel Mar Cinese Meridionale, le continue provocazioni militari intorno a Taiwan e le campagne informatiche contro infrastrutture strategiche alleate.
Zona grigia, zona d’influenza
Pechino ha compreso che la guerra moderna si combatte nella zona grigia: dove la soglia della risposta militare è ambigua e la coesione politica è fragile. La Cina ha moltiplicato le operazioni “grigie” con la sua guardia costiera e le milizie marittime, colpendo navi alleate senza superare il livello di guerra aperta, ma esercitando una pressione continua, a basso costo e ad alto impatto politico.
L’obiettivo è chiaro: far dubitare Manila, Seoul, Tokyo e Canberra che Washington interverrà davvero. Ogni provocazione tollerata, ogni escalation non contrastata, scava una fessura nella credibilità americana, in una regione dove la fiducia – non le promesse – determina le alleanze.
Economia e missili: carote e bastoni
La Cina non si limita alla coercizione. Offre anche alternative. Prima di intensificare le minacce alle Filippine, Pechino aveva tentato la strada dell’influenza economica, promuovendo progetti infrastrutturali della Belt and Road Initiativee promettendo investimenti in cambio del congelamento dei legami difensivi con gli Stati Uniti.
Dove l’economia non basta, si passa ai missili. Le esercitazioni congiunte cino-russe (Joint Sword), l’ammodernamento dell’arsenale balistico, la cyber-guerra e l’intensificarsi delle manovre aeree intorno a Taiwan indicano una volontà chiara: rendere l’intervento americano troppo rischioso. La dottrina cinese mira a negare l’accesso al teatro di operazioni, rendendo ogni reazione statunitense logisticamente e politicamente costosa.
Le ombre nucleari della deterrenza
Pechino critica la deterrenza estesa anche sul piano etico e legale. Secondo studiosi cinesi, l’ombrello nucleare statunitense contribuisce alla proliferazione, non la previene, perché “diffonde” armi nucleari in modo indiretto. Pechino chiede l’adozione di una politica globale di non primo uso, mentre accusa gli Stati Uniti di doppi standard: predicano la non proliferazione ma rafforzano la condivisione nucleare con gli alleati.
In questo contesto, la cooperazione strategica tra Cina e Russia aggiunge ulteriore pressione. Mosca e Pechino condividono non solo un linguaggio comune sulla multipolarità, ma strumenti operativi, dalle esercitazioni congiunte agli sviluppi tecnologici in materia di missili e droni. Una “amicizia senza limiti” che pone la deterrenza estesa americana tra due fuochi: la pressione ad Est e l’erosione a Sud.
Cosa deve fare Washington
La risposta americana non può essere solo militare. Serve una strategia di comunicazione proattiva, che ribadisca chiaramente le condizioni della deterrenza estesa e mostri, nei fatti, la disponibilità a difendere gli alleati. Serve anche una maggiore integrazione economica e diplomatica nella regione, per contrastare la narrazione cinese che dipinge gli Stati Uniti come potenza estranea e destabilizzante.
Ma soprattutto, gli Stati Uniti devono rafforzare le proprie capacità militari nella regione: investire in prontezza, rapidità di risposta, interoperabilità con gli alleati, difesa cibernetica e capacità convenzionali di negazione dell’accesso. Il messaggio deve essere chiaro: qualunque tentativo di coercizione o conquista troverà una risposta coordinata, credibile e sostenibile.
Il test della credibilità
La sfida lanciata dalla Cina non è tattica, è sistemica. La deterrenza estesa americana è sotto pressione perché rappresenta il pilastro della presenza occidentale nell’Indo-Pacifico. Se vacilla, vacilla l’intero ordine regionale. Per questo Washington deve reagire su più livelli, con determinazione ma anche con intelligenza strategica.
La Cina sta tentando di riscrivere le regole del gioco regionale, usando l’ambiguità, la pressione e la promessa di alternative. Ma la risposta più efficace rimane la fiducia visibile tra alleati. Una fiducia che si costruisce sul campo, nel dialogo e nella resilienza.