C’è un filo nero che unisce Kigali, Juba, Mbabane e – più a nord – i corridoi dei ministeri a Washington: la segretezza. Nelle ultime settimane gli Stati Uniti hanno trasferito in Paesi africani persone di varie nazionalità senza renderne note identità, provenienza, accuse, stato di salute, accesso alla difesa. Il Ruanda ha accolto sette deportati ad agosto; a luglio voli analoghi sono atterrati in Sud Sudan ed Eswatini. Di molti non sappiamo nulla se non che sono trattenuti in carceri di massima sicurezza, in isolamento, senza contatti regolari con gli avvocati. È la normalizzazione di una pratica che sposta vite come colli di spedizione e chiede all’Africa di fare da magazzino del disagio altrui.
La giustificazione ufficiale a Washington suona semplice: alcuni espulsi sarebbero “talmente brutali” che i loro Paesi d’origine non li riprendono. Ma i legali contestano, caso per caso. Emblematica la vicenda di Orville Etoria, giamaicano trasferito a Eswatini dopo aver scontato in USA una condanna degli anni ’90 e aver vissuto sotto controllo amministrativo: Kingston ha dichiarato di non rifiutare i propri cittadini. Perché dunque inviarlo in un regno assoluto dell’Africa australe, senza legami culturali o linguistici, e detenerlo di nuovo senza nuove accuse? La risposta non è giuridica: è politico-amministrativa. Si esternalizza il problema, si irrigidisce il messaggio interno (“vi deporteremo comunque”), si costruisce deterrenza per emulazione.
Sotto traccia corre un’altra storia: accordi riservati fra Washington e governi terzi – africani e non – che “accettano” persone espulse da Paesi con cui non hanno alcun nesso. In alcuni casi trapelano cifre e condizioni: pagamenti in contanti, clausole su come non destinare i fondi (per esempio all’assistenza legale o sanitaria riproduttiva), detenzione prolungatain penitenziari tristemente noti per violazioni dei diritti umani. La logica è chiara: tenere queste persone fuori dalla vistae fuori dal diritto.
Non si tratta solo di un’aggressione alla dignità dei migranti. È anche un problema per l’Africa. Accettare deportazioni “di transito” – cioè verso Paesi che non sono di origine – significa trasformare Stati con istituzioni fragili in camere di compensazione delle politiche occidentali. Il rischio è duplice: da un lato si importano tensioni e responsabilità senza strumenti adeguati; dall’altro si alimenta un mercato della detenzione dove i governi diventano fornitori di “servizi di custodia” in cambio di denaro e legittimazione politica. Così si baratta sovranità con subappalto.
Sul terreno giuridico la china è scivolosa. Negli USA si è arrivati a invocare perfino una legge del 1798 pensata per tempi di guerra per giustificare espulsioni lampo, poi più volte contestate da giudici federali. Nel frattempo, linee guida interne hanno ridotto a poche ore la valutazione dei rischi per chi viene inviato in Paesi che non offrono garanzie diplomatiche sulla sicurezza. È l’annullamento del principio di non-refoulement per via amministrativa. E quando perfino l’informazione di base – nomi, luoghi, capi d’imputazione – viene oscurata, non c’è monitoraggio indipendente che tenga.
Dal continente africano, molti difensori dei diritti umani denunciano un ulteriore paradosso: detenuti senza condanna recente, talvolta riabilitati e reinseriti, vengono risucchiati in un limbo carcerario extraterritoriale. Non è sicurezza, è pena aggiuntiva senza processo. E quando i familiari scoprono il destino dei loro congiunti solo a posteriori, attraverso liste ufficiose o comunicati tardivi, il messaggio è esplicito: la trasparenza non è dovuta.
Che fare, allora? Tre piste concrete – e africane – per uscire dalla logica del deposito umano:
- Clausole di diritti umani nei trattati bilaterali. Un Paese africano che negozia intese di “accoglienza” deve pretendere, e rendere pubbliche, garanzie minime: identità note, accesso immediato alla difesa, visite di organismi indipendenti, limiti di tempo alla detenzione, divieto di trattamenti inumani, percorsi di rimpatrio assistito verso i Paesi d’origine quando possibile.
- Controllo parlamentare e giudiziario interno. Ogni accordo di terzo-Paese deve passare in aula e davanti ai tribunali costituzionali. La segretezza non è un dettaglio: svuota la sovranità e impedisce ai cittadini di sapere a quale prezzo il proprio Stato si fa carceriere per conto terzi.
- Rete africana di monitoraggio. Un meccanismo congiunto di Unione Africana, Commissioni nazionali per i diritti umani e società civile per visitare i luoghi di detenzione, assistere legalmente i deportati, pubblicare rapporti periodici. L’Africa non può essere terra di outsourcing senza almeno la propria verifica.
Per Mediafighter, che da sempre ascolta gli scartati della storia, il punto non è negare che esistano persone pericolose. Il punto è come gli Stati scelgono di trattare la pericolosità: nel diritto o fuori dal diritto; alla luce del sole o nell’ombra dei contratti segreti; con percorsi di rimpatrio regolari o con trasbordi punitivi che cancellano identità e relazioni. Quando un governo spedisce esseri umani dove non hanno radici, lingua, famiglia, sta dicendo che il problema non è risolvere, ma allontanare.
C’è un Vangelo molto semplice da ricordare: «Ero forestiero e mi avete accolto». Qui, la politica sembra rispondere: «Eri forestiero e ti abbiamo spedito altrove». L’Africa, che conosce sulla propria pelle la ferita dell’esilio e dell’andare forzato, non può accettare che il suo nome venga usato per legittimare l’invisibilità. Trasparenza, diritto di difesa, limiti alla detenzione, centralità della persona: sono questi i paletti da piantare. Senza, ogni promessa di sicurezza diventa solo un’altra frontiera del cinismo.