A Roma una manifestazione di solidarietà verso Cuba ha ricordato al mondo che esiste un popolo che, pur ferito da sessant’anni di embargo, continua a credere nella dignità e nella giustizia. Ma dietro la resistenza politica si nasconde anche una resistenza spirituale: la fede di un’isola che non ha mai smesso di credere nell’uomo e in Dio, nella fraternità e nella possibilità di un mondo più umano.

Un popolo che resiste, un’anima che prega

Cuba è più di una questione politica: è un simbolo spirituale. Un’isola povera di mezzi ma ricca di cuore, dove la fede non si misura nelle statistiche ma nei gesti quotidiani di chi resiste all’ingiustizia con dignità.

Sessant’anni di embargo economico, commerciale e finanziario non hanno piegato la speranza di un popolo che continua a curare, educare, accogliere. Nelle scuole e negli ospedali pubblici, nei quartieri più umili, si respira ancora quella fede incarnata nel servizio, che non è lontana dal Vangelo di chi “ha fame e sete di giustizia”.

La manifestazione di Roma, partita dal monumento a Mazzini e giunta fino all’Aventino, non è stata solo un atto politico. È stata anche una testimonianza morale, un modo per dire che nessun blocco economico potrà mai soffocare il desiderio di fraternità.

Dietro le bandiere e gli slogan, c’era una verità semplice: il popolo cubano non chiede privilegi, ma il diritto di vivere in pace, di curare i suoi malati, di far studiare i suoi figli, di credere nel proprio futuro.

La fede che nasce dalla sofferenza

Chi conosce Cuba sa che la sua forza non è solo ideologica. È spirituale.

Nei villaggi dell’interno come nelle città, la fede cattolica e le tradizioni religiose afro-cubane convivono in un sincretismo unico, dove il dolore si trasforma in speranza.

La sofferenza del popolo cubano non è sterile: è come il grano che cresce nella terra arida, una fede che diventa solidarietà.

Molti dimenticano che la Chiesa cubana, pur tra mille difficoltà, è stata nei decenni un ponte tra le persone e la speranza. Dai tempi di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, fino ai viaggi di Papa Francesco, la Chiesa ha sempre riconosciuto nel popolo cubano una fede popolare, resiliente, impregnata di compassione e di dignità.

Cuba come parabola evangelica

Nel tempo dei muri e delle sanzioni, Cuba ricorda al mondo una verità evangelica: nessun popolo può essere punito per aver scelto la propria libertà.

La fede di Cuba non è fatta di proclami, ma di ospedali che curano anche gli stranieri, di insegnanti che partono in missione in Africa e in America Latina, di famiglie che condividono il poco che hanno.

È una fede che parla il linguaggio del Vangelo: “Date loro voi stessi da mangiare.”

Ecco perché la manifestazione di Roma, con la presenza di associazioni, movimenti e realtà ecclesiali solidali, non è stata solo un atto politico, ma un gesto profondamente umano e spirituale.

La lezione per l’Occidente

L’Occidente, spesso distratto dal proprio benessere, dovrebbe guardare a Cuba non con compassione, ma con rispetto.

Perché in quella piccola isola, sottoposta a sanzioni che feriscono i bambini e gli anziani, si continua a credere nella vita come dono e nella libertà come responsabilità.

Come ricordava José Martí: “Ser cultos para ser libres.”

E potremmo aggiungere: essere solidali per essere cristiani.

Cuba non è perfetta, ma è viva. E finché ci sarà un popolo che prega, canta e cura anche in mezzo all’assedio, ci sarà sempre speranza per tutti noi.