In Cisgiordania la pace non è mai arrivata, e oggi rischia di non poterlo più fare. Negli ultimi mesi, la tensione è degenerata in una spirale di violenza e sopraffazione che sta trasformando i territori occupati in un laboratorio permanente di annessione, dove il diritto internazionale è sospeso e la vita quotidiana dei palestinesi è diventata una lotta per la sopravvivenza.
Le vessazioni dei coloni israeliani, le incursioni dell’esercito, le demolizioni di case, gli espropri e gli attacchi ai contadini durante la raccolta delle olive non sono episodi isolati: sono parte di una strategia sistematica di “normalizzazione dell’occupazione”.
La Cisgiordania si sta lentamente trasformando da territorio conteso in territorio assorbito, un processo che non si dichiara ufficialmente ma che procede metro dopo metro, uliveto dopo uliveto, villaggio dopo villaggio.
La violenza quotidiana dei coloni
Negli ultimi due anni, secondo le Nazioni Unite, gli attacchi dei coloni armati contro i palestinesi sono più che raddoppiati.
I villaggi vengono assediati, gli abitanti picchiati, i raccolti distrutti, le sorgenti d’acqua avvelenate o sottratte.
Nella valle del Giordano, a Hebron, a Nablus, a Jenin, si contano ogni settimana episodi di intimidazione e violenza, spesso compiuti sotto la protezione dell’esercito israeliano.
Le testimonianze parlano di una quotidiana micro-annessione fatta di paura e sfollamenti forzati.
Anche le comunità cristiane non sono risparmiate.
Il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, ha definito “inaccettabili” le aggressioni ai luoghi di culto e le minacce ai religiosi che operano nei monasteri e nelle parrocchie della Terra Santa.
È il segno di una radicalizzazione che non distingue più tra arabo, musulmano o cristiano: chi non è colono diventa automaticamente un intruso.
Il progetto di annessione: la fine del sogno dei due Stati
A rendere la situazione ancora più drammatica è il salto politico compiuto a Gerusalemme.
La Knesset ha approvato, in via preliminare, un disegno di legge per applicare la sovranità israeliana sulla Cisgiordania — un atto che, se approvato definitivamente, sancirebbe la morte del diritto internazionale e la fine di ogni prospettiva di Stato palestinese.
Il progetto è stato presentato dal deputato Avi Maoz, del partito ultranazionalista Noam, e sostenuto da Otzma Yehudit e dal Sionismo religioso, le formazioni che fanno parte della coalizione di governo.
Il ministro delle finanze Bezalel Smotrich, leader della destra religiosa, ha già proposto di annettere “l’82% della Giudea e Samaria”, cioè della Cisgiordania, definendo la terra “patrimonio biblico del popolo ebraico”.
Parole che riportano la politica israeliana indietro di decenni, al linguaggio del diritto divino invece che del diritto internazionale.
Il premier Benjamin Netanyahu, pur chiedendo formalmente di votare contro, non è riuscito a impedire che il suo stesso partito si spaccasse.
Il risultato è una mossa che ha irritato Washington e allarmato i Paesi arabi firmatari degli Accordi di Abramo.
Il vicepresidente americano JD Vance, in visita a Gerusalemme, ha definito il voto “una provocazione politica stupida”, ribadendo che “la Cisgiordania non sarà annessa”.
Il segretario di Stato Marco Rubio ha avvertito che un’annessione metterebbe “in pericolo la fragile tregua a Gaza”.
Ma i ministri israeliani più estremisti continuano a dettare l’agenda, e ogni giorno la linea rossa arretra un po’ di più.
Una colonizzazione che parla la lingua dell’occupazione
Dal 1967, gli insediamenti israeliani in Cisgiordania sono cresciuti fino a ospitare oltre 700 mila coloni, distribuiti in più di 200 avamposti.
Secondo l’ONU e la Corte Internazionale di Giustizia, questi insediamenti sono illegali.
Eppure lo Stato israeliano li finanzia, li protegge e li incoraggia, costruendo strade “per soli israeliani” e barriere che dividono villaggi e famiglie.
La colonizzazione non è più un effetto collaterale dell’occupazione: è diventata il suo scopo politico.
Si chiama “israelizzazione” di Gerusalemme Est e della Cisgiordania: appropriazione graduale, cancellazione dell’identità palestinese, imposizione di un regime di controllo economico e militare che priva i palestinesi di acqua, terra e libertà.
Una crisi morale oltre che politica
La guerra a Gaza ha oscurato mediaticamente la Cisgiordania, ma lì si sta consumando una tragedia silenziosa.
Ogni arresto arbitrario, ogni demolizione, ogni ulivo sradicato non è solo un atto di violenza: è un passo verso la normalizzazione dell’ingiustizia.
L’idea stessa dei “due Stati per due popoli” — pilastro della diplomazia internazionale — si sta dissolvendo nel silenzio complice dell’Occidente.
L’Europa condanna a parole, ma continua a commerciare; gli Stati Uniti ammoniscono, ma forniscono armi; la comunità internazionale osserva, impotente o distratta.
E intanto, la popolazione palestinese vive tra check-point e filo spinato, tra l’angoscia della notte e la precarietà del giorno.
La voce della Chiesa e la domanda che brucia
Il cardinale Parolin, con la sobrietà che lo contraddistingue, ha ricordato che “la violenza non può mai essere giustificata in nome di Dio”.
Eppure, la violenza quotidiana che si consuma in Cisgiordania viene spesso coperta proprio da un linguaggio religioso.
È qui che il cristianesimo ha il dovere di ricordare che la terra promessa non appartiene a chi la conquista, ma a chi la custodisce.
La Chiesa, da Papa Francesco a Papa Leone XIV, ha ribadito che la dignità della persona viene prima di ogni frontiera, e che i popoli oppressi hanno diritto alla libertà.
La pace non nascerà da un annessione, ma da un riconoscimento: quello che vede nell’altro non un nemico, ma un fratello.
La Cisgiordania come ferita del mondo
La Cisgiordania è oggi il cuore della contraddizione israeliana: vuole essere democrazia e potenza occupante allo stesso tempo.
Ma una democrazia che nega libertà a un intero popolo è una contraddizione vivente.
La tentazione dell’annessione non è solo un errore politico: è una deriva morale che allontana Israele dalla sua stessa promessa di giustizia.
Finché il mondo non avrà il coraggio di dire che l’occupazione è il nome moderno della schiavitù, continueremo a contare vittime e a firmare accordi destinati a fallire.
E il giorno in cui la Cisgiordania sarà ufficialmente annessa, non sarà solo la Palestina ad aver perso la libertà: sarà l’intera umanità ad aver perso la propria coscienza.
