Quando l’uomo forte deve nascondersi, la Cina mostra la sua fragilità più profonda
C’è qualcosa di profondamente ironico nel vedere sparire l’uomo che incarna il potere assoluto nella Repubblica Popolare Cinese. Xi Jinping, presidente, segretario del partito e capo delle forze armate, l’uomo che ha concentrato nelle sue mani più autorità di chiunque dai tempi di Mao, è letteralmente svanito per due settimane, due volte, tra maggio e luglio. Non è la prima volta che un leader cinese sparisce dagli schermi – accade spesso ad attivisti, economisti, ex ministri – ma che accada a colui che tutto controlla, è qualcosa di più di una notizia curiosa. È un campanello d’allarme.
Perché se Xi scompare, è perché non può mostrarsi. E se non può mostrarsi, è perché non è più intoccabile.
Le crepe nel Palazzo Rosso
Le omissioni sistematiche della sua immagine e del suo nome da parte degli organi di propaganda – Quotidiano del Popolo, Xinhua – non sono incidenti di percorso. Sono segnali politici. In un sistema in cui la comunicazione è rigidamente centralizzata, l’assenza è un messaggio.
Che Xi abbia perso parte del suo potere o stia affrontando resistenze interne sempre più forti è una deduzione logica, non un’illazione. Le purghe ai vertici dell’esercito, le “sparizioni” di generali che egli stesso aveva nominato, la sostituzione forzata di figure considerate fedelissime sono il sintomo di un corpo politico in convulsione.
Nel suo apparato più sensibile – la Commissione militare centrale – il potere personale di Xi è minacciato proprio da chi dovrebbe garantirlo. Non si tratta più solo di corruzione, l’accusa generica con cui si giustificano le epurazioni. Qui si gioca una partita più profonda, forse una resa dei conti fra clan interni, nella quale Xi, da padrone assoluto, rischia di divenire ostaggio.
Zhang Youxia: l’ombra dietro il trono
In questo intrigo, il nome di Zhang Youxia – vicepresidente della Commissione militare centrale, amico d’infanzia di Xi e comandante massimo delle forze armate – è il più inquietante. Potrebbe essere stato lui a promuovere la purga? Oppure è Xi, diventato paranoico come tutti gli imperatori, a temerlo come rivale e dunque a colpirlo preventivamente? In entrambi i casi, la risposta è la stessa: il sistema traballa.
La Cina di oggi assomiglia a un impero moderno in abito digitale, ma con dinamiche che ricordano la corte dei Ming: le fazioni si osservano, si accusano, si eliminano. Le finestre russe, da cui cadono misteriosamente oligarchi e banchieri, hanno il loro equivalente a Pechino: si chiama silenzio. Sparizioni, epurazioni, autocensure.
L’economia è il detonatore
Il grande contesto non è solo politico. È economico. Gao Shanwen, l’economista che ha osato dire che la crescita cinese non è al 5% ma appena sopra il 2%, è scomparso. I giovani disoccupati – in realtà il 40%, non il 17% ufficiale – non scompaiono, ma non contano. La bolla immobiliare è scoppiata e ha lasciato una Cina urbana fatta di cemento vuoto e fiducia distrutta. Il sistema produttivo resta vincolato all’export, ma il fronte occidentale è instabile, specie se Donald Trump tornerà alla Casa Bianca. E i consumi interni non decollano.
In tutto questo Xi non ha proposte nuove. Ha solo lo strumento della repressione. E quando l’unico strumento è quello, anche la propria immagine comincia a non servire più. O peggio: diventa un ostacolo.
Perché tutto questo ci riguarda?
Perché la Cina non è più solo il “laboratorio del mondo”. È il secondo attore geopolitico globale. E quando il leader della seconda potenza mondiale sparisce due volte in due mesi, è bene che l’Occidente si faccia qualche domanda.
La stabilità apparente del regime cinese è un mito: sotto la superficie del “partito unico” si muovono correnti potenti, non solo ideologiche ma oligarchiche, militari, regionali. E proprio mentre Xi sembrava aver raggiunto il vertice del potere – terzo mandato, culto della personalità, “Pensiero di Xi” in Costituzione – qualcosa si è incrinato. La sua assenza al vertice dei BRICS in Brasile, un appuntamento che aveva sempre curato personalmente, lo conferma.
Il potere assoluto è potere che trema
Non è un golpe. Non è ancora una successione. Ma è un segnale. Il potere assoluto è costretto al nascondimento quando teme che mostrarsi lo indebolisca. Non succedeva nemmeno a Mao, che nei suoi ultimi anni non era sempre lucido, ma mai invisibile.
Xi Jinping non cadrà domani, né passerà il potere con garbo liberale. Ma la sua aura è incrinata. L’uomo forte che tutto vede, tutto sa e tutto dirige non può più mostrarsi ogni giorno, né imporsi come unico riferimento nel discorso pubblico. È una crisi dell’immagine, quindi una crisi di sistema. Nella Cina di oggi, il carisma sostituisce la democrazia: se crolla il carisma, resta solo il timore. E il timore, lo insegnano tutte le storie di imperi, non dura in eterno.
Xi come Gorbaciov? No. Ma qualcosa si è rotto.
Il paragone con Gorbaciov nel 1991 è fuori scala. Xi ha ancora più consenso interno di quanto ne avesse Gorbaciov nel suo declino. Ma Gorbaciov crollò non per le riforme, ma perché il suo partito non gli credette più. La domanda, oggi, è: il partito crede ancora a Xi Jinping?
Se davvero lo temessero ancora, non lo avrebbero fatto sparire.
Se davvero fosse così intoccabile, nessuno avrebbe osato oscurarlo dai media ufficiali.
Se davvero fosse così solido, i generali scelti da lui non cadrebbero come birilli.
La vera notizia: Xi è vulnerabile
In Cina il potere si misura nel controllo dell’apparato, non nella forza delle idee. E Xi, per la prima volta, sembra vulnerabile.
Non ci sarà un Partito democratico cinese a prenderne il posto. Ma potrebbe esserci una nuova alleanza, più pragmatica e meno personalista, per evitare che la Cina si schianti su se stessa.
È la geopolitica del XXI secolo: anche l’imperatore può sparire, ma i problemi restano. E forse, proprio per questo, il Partito comincia a prepararsi a una Cina dopo Xi. Anche solo come piano B.
Perché nulla è eterno. Nemmeno un potere che si dichiara tale.