La diplomazia spettacolo e la dura realtà della guerra in Ucraina
Il tanto atteso vertice di Anchorage tra Donald Trump e Vladimir Putin, annunciato come potenziale svolta nel conflitto ucraino, si è trasformato in un esercizio di diplomazia scenografica più che in un reale passo avanti verso la pace. L’incontro, iniziato con sorrisi, battute e strette di mano, si è chiuso senza accordi concreti: nessun cessate il fuoco, nessuna roadmap per la pace, neppure una decisione condivisa su dove incontrarsi la prossima volta. Un’“anticlimax in Alaska”, come è già stata definita da molti osservatori.
Putin: l’arte di resistere senza concedere
Putin si è presentato ad Anchorage con una strategia chiara: non arretrare di un millimetro sulle questioni fondamentali. Ha ribadito le sue lamentele storiche sull’Ucraina e, con abile retorica, ha spostato l’accento sulla necessità di ricostruire i rapporti bilaterali con Washington. È un vecchio schema del Cremlino: ridurre la crisi ucraina a una questione laterale, e riportare il discorso sul terreno delle “relazioni tra grandi potenze”.
Il leader russo è riuscito così a evitare le “sanzioni severe” minacciate da Trump e scivolate nel nulla, uscendo dall’Alaska senza pagare un prezzo politico ed economico. La sua battuta finale in inglese, “Next time in Moscow?”, non è stata solo un colpo di scena mediatico, ma un messaggio sottile: Mosca vuole che il baricentro del dialogo si sposti sulle sue condizioni.
Trump: il peacemaker mancato
Donald Trump, da sempre orgoglioso della sua immagine di negoziatore e “deal maker”, ha insistito sulla bontà del suo rapporto personale con “Vladimir” e sulla possibilità di “grandi progressi”. Ma i contenuti sono mancati. Alla conferenza stampa ha parlato per meno di quattro minuti, senza rispondere alle domande della stampa, e ha lasciato emergere solo un vago riferimento a “un paio di punti grossi” ancora da risolvere.
Il successivo intervento su Fox News è stato più rivelatore: Trump ha lasciato intendere che su alcuni punti cruciali – come la possibilità di un “land swap”, ovvero la cessione a Mosca di ampie porzioni di territorio ucraino – c’è stata una convergenza con Putin. Ma resta oscuro fino a che punto Washington sia pronta a sacrificare Kyiv per chiudere un accordo.
La vera nota inquietante è stata la pressione esercitata su Zelensky. Trump ha dichiarato che ora “tocca a lui” decidere se il processo va avanti, spostando di fatto sull’Ucraina la responsabilità di un eventuale fallimento. È una dinamica pericolosa: la vittima dell’aggressione rischia di essere trasformata nel capro espiatorio della mancata pace.
Zelensky l’assente ingombrante
L’Ucraina, paradossalmente, è stata il grande assente del vertice. Zelensky non era invitato, eppure era al centro delle conversazioni. La sua esclusione ha reso evidente il carattere bilaterale – quasi “neo-concertista” – del summit: due grandi potenze che discutono del destino di una nazione terza. Un ritorno a logiche da Yalta che lasciano l’Europa in una posizione marginale e alimentano la diffidenza dei partner NATO.
Tra simbolismo e realtà
Il summit è stato costruito come un grande spettacolo mediatico: la stretta di mano sul red carpet, i jet militari in volo, la corsa in limousine dei due leader senza interpreti. Iconografia da Guerra Fredda, pensata per impressionare l’opinione pubblica mondiale.
Ma dietro la scenografia, i contenuti sono evaporati. Putin ha consolidato la sua immagine internazionale, tornato a essere fotografato come pari al presidente americano. Trump, invece, ha lasciato l’Alaska con pochi titoli di sostanza e molte domande sospese: davvero intende spingere per uno scambio territoriale? Userà la leva delle sanzioni o preferirà alimentare relazioni economiche con la Russia?
Il gelo resta
Il vertice di Anchorage conferma una dinamica già vista: Trump cerca un grande accordo per entrare nella storia come “l’uomo della pace”, Putin lo usa per guadagnare tempo, legittimazione e dividere l’Occidente.
L’Europa osserva con crescente inquietudine: un negoziato che marginalizza Bruxelles e scarica il peso della decisione su Kyiv rischia di minare ulteriormente la coesione dell’alleanza atlantica.
Per ora, il gelo dell’Alaska sembra la metafora più efficace di una pace che resta lontana, ostaggio dei calcoli strategici di Mosca e delle ambizioni personali di Washington.