Nel caos del maxi-emendamento alla legge di Bilancio, tra correzioni last minute e scivoloni sulle pensioni, emerge una scelta che dice più di mille dichiarazioni: l’inserimento di una norma che eleva la produzione e il commercio di armi a interesse strategico nazionale. Non è solo una questione tecnica. È un segnale politico che avvicina l’Italia a una logica di economia di guerra, mentre welfare e servizi restano sotto pressione.
C’è un momento, nella vita di una legge finanziaria, in cui le cifre smettono di essere numeri e diventano visione del mondo. L’articolo 60, così come riformulato dal blitz di Fratelli d’Italia, appartiene a questa categoria. Non perché contenga uno slogan ideologico, ma perché normalizza un cambio di paradigma: la sicurezza dello Stato e il rafforzamento dell’industria bellica diventano l’asse attorno a cui ridisegnare infrastrutture, territori, politiche industriali.
Il lessico è freddo, amministrativo, quasi anodino. Ma dietro le formule — «attività», «aree», «opere», «capacità industriali della difesa» — si intravede una scelta netta: attribuire corsie preferenziali, procedure accelerate, centralità strategica a tutto ciò che ruota intorno alla produzione di armi. È una torsione che non nasce nel vuoto. Si inserisce nel clima internazionale segnato dalla guerra in Ucraina, dalle pressioni della Nato e dall’orizzonte — sempre più evocato — di una spesa militare pari al 5% del Pil.
Il punto non è negare che la difesa sia un tema serio. Il punto è chiedersi quale prezzo sociale e politico si è disposti a pagare per assumerla come motore della politica economica. Perché mentre si invoca la sicurezza nazionale, la manovra continua a limare pensioni, a comprimere la spesa per scuola e sanità, a rinviare investimenti strutturali nel trasporto pubblico e nella riconversione industriale. La crisi dell’auto, simbolo di un intero sistema produttivo in affanno, non viene affrontata con innovazione e transizione ecologica, ma evocando la possibilità di trasformare le fabbriche in arsenali.
Le opposizioni parlano di “economia di guerra”. Forse l’espressione è forte, ma il ragionamento non è campato in aria. Quando lo Stato individua come strategico l’ampliamento e la conversione di impianti per la difesa, e lo fa in una manovra segnata dall’austerità sociale, manda un messaggio preciso sulle priorità. È una gerarchia che rovescia l’ordine tradizionale del patto repubblicano: prima le armi, poi il resto.
C’è anche un elemento più sottile, e forse più inquietante. La norma non si limita a finanziare la difesa: costruisce un quadro di eccezionalità permanente, in cui decreti ministeriali possono ridefinire territori e infrastrutture in nome della sicurezza. È il rischio di una normalizzazione dello stato d’emergenza, dove ciò che è “strategico” sfugge al dibattito pubblico e alla pianificazione democratica.
In questo senso, il pasticcio della manovra non è solo procedurale. È culturale. Rivela una politica che, davanti alla crisi, non immagina un futuro diverso, ma si rifugia nella scorciatoia della forza. E mentre si chiede ai cittadini di lavorare più a lungo, di accontentarsi di meno, di rinviare diritti e aspettative, lo Stato investe su ciò che promette potenza, non coesione.
Forse il vero allarme non sta nella cifra destinata alla difesa, ma nell’idea che la crescita possa passare dalla fabbricazione di armi più che dalla cura delle persone. È una scelta che segna un’epoca. E come tutte le scelte di fondo, meriterebbe un dibattito aperto, non un comma infilato di notte in una legge di Bilancio.
