Per Javier Milei, le elezioni di medio termine in Argentina non sono solo un voto parlamentare: sono un referendum sul suo esperimento politico, sulla sua promessa di “rifare lo Stato da zero” e sulla tenuta di un modello che – a quasi due anni dal suo trionfo presidenziale – mostra tutte le crepe di una leadership ideologica senza ossatura politica.
Il presidente libertario, salito al potere con il simbolo della motosega, oggi sembra vittima del suo stesso strumento. La retorica dei tagli, nata come gesto di liberazione dall’apparato burocratico e dalla “casta”, si è trasformata in un processo di amputazione sociale che ha lasciato il Paese dissanguato: salari reali crollati, inflazione oltre il 200%, povertà in crescita, sistema sanitario e scolastico al limite della sopravvivenza.
La sua amministrazione, un tempo acclamata come “rivoluzione antisistema”, appare ora logorata da scandali, dimissioni e improvvisazioni. L’uscita di scena del ministro degli Esteri Gerardo Werthein e del ministro della Giustizia Mariano Cúneo Libarona sa di resa. Le alleanze si sfilacciano, il Congresso è riottoso, e la popolazione, già provata da un decennio di crisi, mostra segni di malcontento diffuso e rabbia repressa.
Nemmeno l’intervento di Donald Trump – che ha benedetto pubblicamente il piano di salvataggio da 40 miliardi di dollari concordato con Washington – è bastato a restituire fiducia ai mercati. L’accordo con gli Stati Uniti e la presenza ingombrante di J.P. Morgan nelle trattative hanno alimentato il sospetto di una nuova forma di dipendenza finanziaria, un commissariamento de facto del governo argentino. Come ha ironizzato il governatore Axel Kicillof, “non sappiamo se è il ministero dell’economia ad avere funzionari di J.P. Morgan, o se è J.P. Morgan a guidare il ministero”.
In questo scenario, la fragilità del peso argentino diventa metafora della fragilità del progetto politico mileista. Il ministro dell’economia Luis Caputo parla di “fondamenta solide” e “banca centrale capitalizzata”, ma la realtà è che i capitali fuggono, la disoccupazione cresce e le tensioni sociali si moltiplicano. Gli annunci non bastano più: la fiducia, in economia come in politica, non si decreta – si conquista.
Il vero punto di crisi, però, non è solo economico. È psicologico e simbolico. Milei aveva incarnato la speranza di un Paese esausto: la promessa di un nuovo inizio contro il peronismo e il clientelismo. Ma oggi quella promessa appare svuotata. La “casta” che voleva spazzare via si è riformata attorno a lui, in una cerchia di fedelissimi e familiari, mentre il popolo che lo acclamava ora lo guarda con diffidenza, se non con disincanto.
I sondaggi che danno La Libertad Avanza e Fuerza Patria in un testa a testa segnalano una rimonta peronista inaspettata, trainata non tanto da una rinnovata fiducia nel centro-sinistra quanto da un voto contro Milei. È il riflesso di una delusione profonda: la scoperta che la distruzione dello Stato, senza una visione di ricostruzione, non libera ma paralizza.
Le elezioni di oggi potrebbero dunque segnare il passaggio simbolico dal “miracolo libertario” al “caos controllato”. E il destino politico di Milei si gioca tutto su questo filo sottile: se il voto confermerà la sua perdita di consenso, il presidente argentino rischia di diventare prigioniero del suo stesso esperimento – un uomo che ha promesso la libertà e ha consegnato la paura.
In fondo, l’Argentina non chiedeva una motosega. Chiedeva una bussola.
