I mostri che l’America crea e poi rinnega
C’è un’immagine che resterà incollata a questa vigilia di Thanksgiving: due ragazzi della Guardia Nazionale stesi sull’asfalto, a pochi isolati dalla Casa Bianca, e il presidente degli Stati Uniti che da Palm Beach, in giacca e cravatta, si collega in video per chiamare “animale” l’uomo che ha sparato.
Un “animale afghano”, per la precisione.
Due membri della Guardia Nazionale sono stati gravemente feriti in una sparatoria vicino alla Casa Bianca mercoledì. La sparatoria è avvenuta intorno alle 14:15 vicino all’ingresso della stazione della metropolitana Farragut West, situata a pochi isolati dalla Casa Bianca.
La scena è potente, televisiva, perfetta per il copione di una campagna permanente: spari, sangue, un sospetto straniero, la promessa di più truppe, più armi, più espulsioni. E soprattutto una decisione politica immediata: chiusura totale all’immigrazione dall’Afghanistan, sospensione a tempo indeterminato di tutte le pratiche, compresi i visti speciali per chi ha lavorato con gli Stati Uniti.
Peccato che, pochi minuti dopo, emerga il dettaglio che rovina la sceneggiatura: il sospetto, Rahmanullah Lakanwal, 29 anni, non è il simbolo del “caos dei confini aperti”, ma il prodotto più puro e diretto della macchina di sicurezza americana. Ha lavorato con unità sostenute dalla C.I.A. in Afghanistan, ha collaborato con varie agenzie governative, è stato evacuato nel 2021 proprio grazie a un programma dell’amministrazione Biden pensato per chi aveva servito gli Stati Uniti.
In altre parole: questo “mostro” non è stato “importato” dall’ingenuità buonista dell’Occidente. È un figlio legittimo della guerra infinita.
Il boomerang delle guerre per procura
Per vent’anni in Afghanistan gli Stati Uniti hanno coltivato, finanziato, addestrato intere generazioni di uomini come Lakanwal: interpreti, informatori, miliziani di unità speciali sotto regia C.I.A., forze partner nelle province più dure, come Kandahar.
Sono stati loro, spesso, a fare il lavoro sporco: operazioni notturne, operazioni “mirate” contro presunti talebani, evacuazioni rischiose negli ultimi giorni del ritiro nel 2021.
Li abbiamo chiamati “alleati locali”, “eroi invisibili”, “risorse preziose”. Ora, di colpo, diventano “animali”.
Non sappiamo ancora cosa abbia spinto quel ragazzo a sparare, se ci sia stata una radicalizzazione improvvisa, un crollo psichico, un rancore accumulato, la spirale della marginalità. Ma una cosa è chiara: non è un infiltrato spuntato da un varco aperto, è un prodotto interno lordo del sistema di sicurezza americano.
Qui sta la vera “figuraccia”: l’America scopre di avere paura non di quelli che non conosce, ma di quelli che ha formato, usato, esposto alla violenza, e poi lasciato in sospeso tra gratitudine verbale e abbandono pratico.
Prima strumento, poi problema
La logica è sempre la stessa, in Afghanistan come altrove.
- Si crea un nemico (i talebani, Al-Qaeda, l’ISIS, ieri l’URSS, domani chissà).
- Si cercano “partner locali”, li si arma, li si addestra, li si manda in prima linea.
- Finita la guerra – o semplicemente finita la pazienza dell’opinione pubblica –quei partner diventano ingombranti: chiedono visti, protezione, lavoro, terapia, riconoscimento.
È a questo punto che il sistema si inceppa.
Perché accogliere davvero chi ha lavorato per te significa prendersi sulle spalle: il trauma della guerra, le difficoltà di integrazione, il rischio che qualcuno non ce la faccia, che esploda, che cada nella violenza o nella follia.
Molto più facile rovesciare il tavolo: dare la colpa all’immigrazione in generale, bloccare tutti gli afghani, trasformare un fallimento di politica estera in una crociata contro i rifugiati.
Ma la realtà, qui, si impone: sono gli Stati Uniti ad aver portato Lakanwal sul proprio territorio.
Non un’ONG, non un trafficante di esseri umani, non un “confine poroso”.
Lo ha portato un programma ufficiale, Operation Allies Welcome, creato proprio per dare una via di fuga a chi aveva rischiato la vita per la bandiera a stelle e strisce.
L’ipocrisia delle porte sbattute
Ora, di fronte agli spari alla stazione Farragut West, la risposta politica è brutale e semplicissima: sospensione di tutte le domande di immigrati afghani, stop a chi chiede asilo, gelo sui visti speciali per chi aveva lavorato con gli americani, retorica dell’“inferno sulla terra” da cui non deve più arrivare nessuno.
La logica è questa: siccome uno ha sparato, tutti diventano sospetti.
E il Paese che per vent’anni ha chiesto a migliaia di afghani di fidarsi di lui – “aiutateci, poi non vi lasceremo soli” – ora manda il messaggio opposto: “non ci fidiamo di voi, di nessuno di voi”.
È il rovesciamento perfetto della responsabilità: l’America ha alimentato un incendio, si è ritirata lasciando una nazione al collasso, ha ridotto gli aiuti umanitari, e ora punisce proprio quelli che cercano di fuggire da quel disastro.
“Animali” e figli di nessuno
C’è una parola che pesa più delle altre: “animale”.
Quando un presidente definisce un uomo così, non sta solo insultando un individuo. Sta disumanizzando un’intera categoria, soprattutto se, pochi istanti dopo, annuncia che tutti gli afghani saranno bloccati alle frontiere.
È una scorciatoia psicologica: se sono “animali”, non siamo più costretti a domandarci: come li abbiamo trattati quando erano nostri alleati; quali promesse abbiamo fatto (e tradito); quali traumi portano addosso dopo anni di guerra; che fine fanno quando, arrivati negli USA, si ritrovano in quartieri poveri, senza sostegno, spesso senza terapia, sospesi tra due mondi in cui non si sentono a casa.
Si preferisce la formula semplice: “mostri” da fermare, non persone da comprendere.
Peccato che questi mostri siano in buona parte creature di laboratorio geopolitico:
addestrati nei campi militari, utilizzati nelle operazioni speciali, imbevuti di una grammatica della violenza che poi non si spegne con un timbro sul passaporto.
I mostri fabbricati all’estero, importati in casa
Il paradosso è proprio questo:
gli Stati Uniti, e più in generale l’Occidente, passano anni a costruire “forze partner”, “milizie amiche”, “alleati strategici”.
Li armano, li addestrano, li gettano dentro conflitti che non hanno scelto, spesso contro altri compatrioti poveri.
Quando il ciclo politico cambia, quando la guerra non è più “vendibile” all’elettorato, quei combattenti vengono: evacuati in fretta, smistati in basi militari, ricollocati in periferie anonime, lasciati a cavarsela in un mondo che non capiscono e che non li capisce.
È così che si creano figli di nessuno: troppo compromessi per tornare indietro, troppo segnati per integrarsi davvero, troppo soli per reggere il peso della memoria.
Non tutti diventano killer. La stragrande maggioranza no. Ma quando uno di loro esplode, non è un incidente misterioso:
è il boomerang di una politica che ama usare le vite altrui come pedine, e poi si scandalizza quando una pedina, invece di obbedire, spara.
Una lezione che l’Europa non può permettersi di ignorare
Questo elzeviro non è un esercizio di antiamericanismo facile.
È, semmai, un avvertimento anche per noi europei: ogni volta che partecipiamo (direttamente o per delega) a guerre “umanitarie”, ogni volta che costruiamo milizie amiche, formazioni speciali, polizie di frontiera in paesi terzi, ogni volta che promettiamo protezione a chi collabora con noi sul terreno, tiamo assumendo un debito umano che non può essere cancellato con un cambio di governo o una campagna elettorale.
L’America oggi chiude le porte agli afghani, dopo averne portati a decine di migliaia sul proprio suolo.
Noi, spesso, chiudiamo gli occhi sulle conseguenze delle nostre scelte in Libia, nel Sahel, in Medio Oriente.
La storia di Rahmanullah Lakanwal – al netto di tutte le indagini, delle responsabilità personali, dei crimini che vanno perseguiti – ci ricorda una cosa scomoda: quando si gioca con le vite degli altri, i mostri non nascono dal nulla. Li si educa, li si arma, li si usa. Poi, a volte, tornano a bussare alla porta di casa. E allora, per quanto sia facile urlare “animale”, la domanda evangelica resta lì, ostinata: chi è stato, prima, il prossimo di chi?
