Nei giorni scorsi la decisione del Tribunale per i minorenni dell’Aquila di collocare temporaneamente in una casa-famiglia tre bambini che vivevano con i genitori in una casa isolata nei boschi abruzzesi è diventata un caso politico. E, come spesso accade, la realtà è stata sacrificata alla polemica.
La narrazione virale sostiene che lo Stato avrebbe “rapito” tre minori solo perché educati senza scuola, in uno stile di vita alternativo. Non è così. L’intero procedimento nasce da un episodio sanitario: l’intossicazione da funghi che portò la famiglia al pronto soccorso nel 2024. Come la legge impone, medici e servizi sociali segnalarono possibili rischi per i minori: non una scelta discrezionale, ma un obbligo previsto dal Codice penale.
A quel punto il Tribunale ha scelto la via più graduale possibile: affidamento ai servizi sociali, monitoraggio quotidiano, permanenza dei bambini nella casa. Nessun allontanamento immediato. Il problema è sorto mesi dopo, quando i genitori hanno interrotto i contatti, impedito le visite e reso impossibile verificare le condizioni sanitarie e abitative dei minori. È qui che il giudice ha ritenuto necessario un intervento temporaneo, confermato dall’analisi dell’isolamento linguistico e relazionale dei bambini, nati in Italia ma incapaci di comunicare senza mediazione dei genitori.
Di fronte a tutto questo, alcuni leader politici – in particolare Lega e Fratelli d’Italia – hanno spostato la discussione su un altro terreno: perché questi bambini vengono allontanati e quelli dei campi rom no?
È un confronto ingiusto e soprattutto falso.
Negli anni, gli allontanamenti nelle comunità rom ci sono stati e continuano a esserci, quando vengono riscontrati pericoli analoghi. Solo nell’ottobre 2025 dieci minori del campo rom di via Selvanesco, a Milano, sono stati trasferiti in comunità per condizioni igieniche gravemente inadeguate. Studi e rapporti – dall’Università di Verona all’Associazione 21 luglio – documentano un numero significativo di minori rom dichiarati adottabili o allontanati nel Lazio e in altre regioni.
Dunque non esiste alcuna “corsia preferenziale”. Esistono, piuttosto, situazioni di degrado strutturale, come quella dei campi rom istituiti negli anni Ottanta, che spesso espongono i minori a rischi reali e rendono necessario l’intervento dell’autorità giudiziaria. E questo intervento avviene – anche se con grande fatica, anche se tra mille resistenze – come mostrano numerosi casi.
Il vero problema, allora, non è l’arbitrio dei servizi sociali, ma l’uso politico dell’infanzia. La tentazione di trasformare i bambini – italiani, stranieri, rom, neorurali – in simboli da agitare per una battaglia identitaria.
Il diritto di famiglia, invece, ragiona diversamente: ogni caso è unico.
Non esistono automatismi, né per togliere né per restituire i figli.
Esiste solo l’interesse del minore, valutato con prudenza, gradualmente, attraverso un dialogo fra servizi, famiglie e giudici.
Strumentalizzare un caso complesso per alimentare contrapposizioni etniche o ideologiche fa male ai bambini e avvelena il dibattito pubblico. La domanda da porsi non è: “chi ha più diritti, la famiglia nel bosco o i rom?”. La domanda è: come garantire che ogni bambino, chiunque sia e ovunque viva, cresca in sicurezza, dignità e libertà?
Il resto è propaganda.
