Il Papa ricorda che la Chiesa cammina solo se guarda negli occhi Cristo e il popolo

Assisi ha un modo tutto suo di parlare, anche quando tace. Le pietre, le absidi, il cielo che sembra più vicino: tutto lì ricorda che la fede, per durare, deve restare umile. In quel silenzio francescano, Papa Leone XIV ha incontrato i vescovi italiani. Non è stato un discorso di circostanza: è stato un gesto di fondazione, come se il nuovo Papa avesse voluto dire che ogni riforma — ecclesiale o personale — deve cominciare nell’unico luogo dove il Vangelo si ricompone, cioè ai piedi del Cristo povero.

Non c’è verbo più ricorrente nelle sue parole di quel “guardare”. Guardare Gesù, prima di tutto, quasi un ritorno al punto sorgivo: non alle strutture, non alle strategie pastorali, ma al volto del Crocifisso Risorto. È Lui — ha ricordato Leone XIV — la ragione stessa per cui la Chiesa esiste. E soprattutto è Lui che libera dal rischio più sottile: parlare di Dio senza parlare con Dio, ripetere formule senza tornare al kerygma, proclamare la pace senza riceverla nel cuore. È un monito che non giudica, ma raddrizza: quando la Chiesa dimentica il suo centro, smette di camminare e comincia a girare in tondo.

Eppure, guardare Cristo, ha aggiunto il Papa, non basta se non ci si lascia spingere verso i fratelli. L’eco di san Paolo attraversa tutta la sua riflessione: l’amore di Cristo ci sospinge, ci distoglie da ogni autoreferenzialità, ci costringe a uscire. È qui che il Papa tocca il nervo scoperto del nostro tempo: un’epoca che moltiplica connessioni ma consuma relazioni, che pretende efficienza sacrificando i fragili, che trasforma la tecnologia in gabbia e la solitudine in destino. In questo scenario, Leone XIV non chiede alla Chiesa un soprassalto moralistico, ma un ritorno alla profezia della fraternità: ascoltare, ricucire, armonizzare le tensioni. Dire “pace” con la vita, non solo con le labbra. Essere comunità che spezza il pane e non le persone.

C’è poi un passaggio che, in controluce, mostra con chiarezza lo stile del nuovo pontificato. Quando il Papa parla della sinodalità, non ne fa un tema organizzativo, né un progetto ingegneristico. La definisce semplicemente “camminare insieme”, nella storia e con la storia. Un movimento che non sopporta nostalgie né cristallizzazioni. Qui il riferimento agli accorpamenti delle diocesi non è un tecnicismo: è un invito a lasciare che l’esigenza missionaria ridisegni i confini, superando l’istinto di conservazione che spesso paralizza. Non si tratta di chiudere, ma di convertire lo sguardo: lavorare insieme, evitare che il territorio di ieri sia la gabbia di domani. Eppure, accanto alla franchezza, c’è la delicatezza: il Papa sa che certe scelte creano smarrimento, fatica, perfino ferite. Per questo chiede discernimento, gradualità, realismo. È un’arte spirituale, non un decreto.

Altro tratto sorprendente è la chiamata dei vescovi a non temere il proprio congedo. In queste parole riecheggia la migliore tradizione ecclesiale, quella per cui l’autorità è sempre un servizio e mai un possesso. Leone XIV ricorda che la stagione del ministero ha un inizio e una fine, e che la fedeltà alla Chiesa passa anche dalla capacità di cedere il passo. In tempi in cui tutto parla di attaccamento al ruolo, questa libertà interiore è forse il dono più controcorrente che un vescovo può consegnare al suo popolo.

Ma il centro del discorso — il cuore nascosto — è la memoria. La memoria del cammino postconciliare, dei convegni ecclesiali, della presenza minuta e fedele delle comunità cristiane. La memoria che impedisce alla Chiesa di vivere alla giornata, di rispondere ai problemi del presente senza il respiro della lunga storia della salvezza. Perché senza memoria, ricorda il Papa citando il Deuteronomio, il deserto diventa smarrimento; con la memoria, diventa cammino.

Da qui sgorga l’invito più urgente: promuovere un umanesimo integrale che tocchi la carne del mondo. Non un’idea astratta dell’uomo, ma quella che nasce dal Vangelo e si traduce in legalità, solidarietà, rispetto della vita in tutte le sue forme. È l’umanesimo che non fugge le domande del presente — nemmeno quelle più scomode dell’universo digitale — ma lo abita con responsabilità, affinché la rete non diventi una trappola che confonde la verità con la moltiplicazione delle opinioni.

Poi il Papa allarga lo sguardo: le famiglie, i giovani, gli anziani, i poveri, i piccoli. E soprattutto le vittime degli abusi, che non devono mai essere inghiottite dal silenzio. Qui il tono si fa ancora più paterno, perché per Leone XIV la credibilità della Chiesa passa dalla capacità di guardare le ferite senza paura, trasformando la compassione in prevenzione, la vergogna in conversione, l’ascolto in guarigione. Dove il dolore è più profondo, dice citando la Veglia della Consolazione, più forte deve essere la speranza. Non una frase d’effetto: un programma.

Alla fine, tutto si chiude come era cominciato: con Francesco d’Assisi e il suo stile sinodale ante litteram. I primi frati che insieme vivevano, insieme decidevano, insieme si correggevano e insieme scrivevano una Regola che profumava di Vangelo. Era una fraternità coraggiosa, creativa, obbediente allo Spirito. Leone XIV, da Assisi, sembra dire ai vescovi italiani che quella pagina medievale non è un ricordo, ma un compito: ritrovare il coraggio della semplicità evangelica, lasciando che la fede diventi davvero forma di vita.

E forse è questo il punto finale: in una Chiesa che spesso dibatte, elabora, programma, il nuovo Papa chiede un ritorno alla sorgente dove tutto si chiarisce: la fede, nuda e intera, come quella di Francesco. Una fede che non si accontenta di parlare di sinodalità, ma la vive; che non teme le sfide, ma le abita; che non cerca il potere, ma il Regno.

Da Assisi, ancora una volta, parte un invito antico e nuovissimo: ripartire dal Vangelo, per tornare a camminare insieme.