Una condanna che riapre il dibattito sulla dignità della donna e della vita umana

La recente risoluzione del Parlamento Europeo sulla strategia per l’uguaglianza di genere 2025 ha riportato al centro dell’attenzione pubblica un tema delicatissimo: la maternità surrogata. Nel documento approvato a Strasburgo, l’Europarlamento definisce la surrogazione una “forma di sfruttamento” del corpo femminile, soprattutto quando assume dimensioni commerciali o transnazionali. È un passaggio che non lascia spazio a interpretazioni ambigue. E che non pochi hanno salutato come un punto di svolta.

Il Parlamento Europeo, infatti, sceglie una linea netta, riconoscendo che dietro il fenomeno della surrogata non c’è soltanto una questione di libertà individuale, ma l’esistenza di un mercato globale che spesso mette in gioco donne vulnerabili, soprattutto nei Paesi extra-UE, spinte dalla necessità economica a “prestare” il proprio corpo per la gravidanza di altri. In questo senso, la risoluzione non inaugura una crociata ideologica, ma identifica un problema strutturale: la trasformazione della maternità in un servizio contrattuale. E, di conseguenza, del bambino in un oggetto di scambio.

La condanna del Parlamento Europeo, d’altra parte, arriva in un contesto molto diverso rispetto a quello di dieci o quindici anni fa. La discussione non riguarda solo la bioetica, ma investe la tutela dei diritti fondamentali. Chi parla di sfruttamento non lo fa perché immagina la maternità surrogata come un gesto affettivo tra familiari o amici, ma perché osserva le dinamiche reali del mercato riproduttivo: cliniche private, contratti complessi, intermediazioni, viaggi organizzati per coppie europee verso Paesi dove la regolamentazione è debole o inesistente. In questi contesti, la donna che porta avanti la gravidanza non è quasi mai un soggetto libero, ma parte di una catena commerciale.

No all’utero in affitto

L’Unione Europea, dunque, sceglie di dare un segnale politico forte. Lo fa pur sapendo che la competenza legislativa in materia di famiglia e riproduzione resta in gran parte nazionale. E che la risoluzione, in sé, non ha valore vincolante. Ma è proprio questo il dato significativo: l’Europa, spesso accusata di eccessiva timidezza nel campo bioetico, indica una direzione. E la direzione è quella della tutela della dignità della donna e della protezione del bambino come soggetto di diritti, non come risultato di un contratto.

Resta aperta, naturalmente, la questione della surrogazione cosiddetta “altruistica”, già permessa in alcuni Stati. Tuttavia, il testo adottato dagli eurodeputati parla esplicitamente di qualsiasi forma di surrogazione che comporti un “vantaggio economico o di altro tipo”. È un’espressione ampia, che invita a interrogarsi su quali pressioni – anche non economiche – possano condizionare una donna ad assumere su di sé una gravidanza per altri. La linea europea lascia intendere che, in un contesto sociale fragile, anche le forme dichiaratamente non commerciali rischiano di mascherare dinamiche di dipendenza o di scambio implicito.

Il nodo dei bambini nati con surrogazione all’estero

C’è poi il nodo, ancora irrisolto, del riconoscimento dei bambini nati tramite surrogazione all’estero. È un tema che l’Italia conosce bene. Il Parlamento Europeo, pur condannando lo sfruttamento, non ignora la necessità di tutelare quei bambini già venuti al mondo, spesso intrappolati in un limbo giuridico. Una cosa è opporsi alla pratica; altra è lasciare senza diritti un minore che non ha colpa delle scelte compiute dagli adulti. Qui si gioca la parte più complessa del dibattito futuro: come custodire la dignità della donna senza abbandonare il bambino a un vuoto legale.

La risoluzione non risolve tutto, ma sposta l’asse. Restituisce forza a una convinzione che in Europa sembrava essersi indebolita: la maternità non è un servizio acquistabile, e il corpo femminile non può diventare territorio di contratti. Non è un’idea confessionale né nostalgica, ma una semplice constatazione antropologica. Ogni sistema che monetizza la gravidanza, anche quando lo fa con linguaggi moderni, espone le donne più deboli al rischio di diventare strumenti di un progetto altrui.

Per questo la presa di posizione del Parlamento Europeo non è solo un atto politico. È un invito a tutta l’Unione a riflettere su quale idea di famiglia, di maternità e di persona voglia custodire. È un richiamo a difendere, insieme, la fragilità delle donne e dei bambini, senza cedimenti agli interessi economici e senza chiudere gli occhi di fronte alle ingiustizie globali che attraversano il mercato della riproduzione. È un appello, infine, alla responsabilità etica di ciascuno: perché la dignità non si delega, e non si compra.