Nel Giubileo dei Poveri, Leone XIV non inaugura una nuova stagione ma ne conferma una decisiva: quella che Papa Francesco aveva consegnato alla Chiesa, ponendo i poveri non ai margini ma al centro del Vangelo. Nel suo linguaggio limpido e profondo, il nuovo Pontefice mostra che la continuità non è imitazione, ma fedeltà: al Cristo dei piccoli, alla Chiesa che si inginocchia davanti agli ultimi, alla speranza che non si spegne neppure nell’ora più buia della storia.
C’è una frase nell’omelia di Leone XIV per il Giubileo dei Poveri che, più di altre, rivela la continuità profonda con il pontificato di Papa Francesco: «La Chiesa vuole essere madre dei poveri, luogo di accoglienza e di giustizia». Non una parentesi, non una citazione d’obbligo nel giorno dedicato ai poveri, ma la conferma di una direzione di marcia.
La stessa che Francesco aveva indicato fin dall’inizio, quando disse che desiderava una Chiesa “povera e per i poveri” e che ora Leone XIV assume come programma spirituale e come stile pastorale, senza retorica e senza esitazioni.
Il suo linguaggio – essenziale, diretto, libero da orpelli – rinnova il cuore del messaggio francescano: Dio prende posizione. Sta dalla parte dei piccoli, degli indifesi, degli scartati. E non smette di farlo neppure nella storia turbata, fatta di guerre, migrazioni, solitudini, ingiustizie strutturali e disuguaglianze globali che sembrano crescere come un’ombra che avanza sulla terra.
In questa fedeltà al Vangelo dei poveri c’è la più evidente continuità con il suo predecessore.
Quando Leone XIV, nella Basilica colma all’inverosimile, pronuncia le parole: «Dilexi te – Io ti ho amato», sembra di sentire l’eco di Evangelii gaudium e di Fratelli tutti: l’annuncio cristiano non parte da un dovere, ma da una relazione. Non nasce dalla paura, ma dalla dignità. Non sgorga da un sistema perfetto, ma dal riconoscere che Dio vede chi nessun altro vede.
Francesco aveva ripetuto per dieci anni che i poveri non sono un problema sociale ma un sacramento vivo della presenza di Cristo. Leone XIV prosegue questa linea con una tonalità sua, profondamente biblica: il “sole di giustizia” non è un’immagine poetica, ma la certezza che nella storia — anche in quella più frammentata e cupa — Dio non abbandona nessuno, e soprattutto non abbandona gli ultimi.
C’è un altro tratto che unisce i due pontificati: la capacità di leggere le paure del tempo senza concedersi a esse.
Francesco aveva spesso messo in guardia dalla “globalizzazione dell’indifferenza”; Leone XIV introduce una categoria nuova ma altrettanto incisiva: la “globalizzazione dell’impotenza”.
Due volti dello stesso male: arrendersi al male perché appare più grande di noi.
Ma il nuovo Papa ribalta la logica. Ricorda che nella storia, spesso, è proprio il naufragio delle speranze umane a diventare lo spazio in cui Dio crea qualcosa di nuovo.
È un’affermazione che sembra scritta per questo tempo di conflitti diffusi, di famiglie sradicate, di giovani disorientati, di popoli colpiti dalla fame e dalla guerra.
Il discorso sull’attenzione — parola-chiave dell’omelia — è particolarmente significativo.
Francesco aveva denunciato il “virus della solitudine” che nasce da un sistema che produce scarti.
Leone XIV ne approfondisce la radice: la povertà, oggi, non è soltanto assenza di mezzi, ma isolamento, scomparsa di legami, perdita di un volto amico che guardi e riconosca.
Per questo insiste: non bastano le opere di assistenza; serve una cultura nuova, che ricostruisca legami dove la logica dello scarto crea deserti.
Nell’Angelus, poi, c’è un passaggio che illumina ancora una volta la continuità: la persecuzione — dice Leone XIV — non è solo quella che usa le armi, ma anche quella delle parole, delle manipolazioni ideologiche, delle deformazioni mediatiche.
È un tema che Francesco aveva toccato mille volte, chiedendo che la Chiesa non diventasse terreno di scontro tra ideologie, né rifugio per battaglie identitarie che nulla hanno a che fare con il Vangelo.
Il Papa americano riprende quel filo, ma lo rafforza con la sua esperienza pastorale negli Stati Uniti, in Perù e nel mondo occidentale, dove spesso la fede è strumentalizzata come arma politica.
Lo fa senza aggressività, ma con un cristianesimo limpido: la vera testimonianza nasce quando la sofferenza si trasforma in occasione per dire il bene.
Il pranzo con i poveri, infine, è la firma più evidente della continuità.
Bergoglio aveva trasformato la Giornata dei Poveri in un laboratorio vivo di misericordia, sedendosi a tavola con chi non ha nulla.
Leone XIV lo fa con la stessa naturalezza, con la stessa semplicità, con la stessa convinzione che la liturgia non finisce all’altare: continua nella fraternità, nell’incontro, nella carne concreta dell’altro.
E aggiunge un gesto denso di significato: completa e pubblica Dilexi te, l’esortazione apostolica che Papa Francesco aveva preparato negli ultimi mesi di vita.
La consegna al popolo dei poveri è un atto che vale un programma. È dire: la strada è questa. Continueremo a camminare.
La tradizione cattolica non è ripetizione, ma continuità creativa.
E nel pontificato di Leone XIV si intravede una continuità che non è copia, ma fedeltà: la fedeltà al Vangelo dei poveri che Francesco ha rimesso al centro con forza e che oggi torna a brillare come il “sole di giustizia” annunciato nel profeta Malachia.
Non c’è riforma della Chiesa che non passi da qui. Non c’è futuro cristiano che non metta i poveri al centro.
Non c’è pace senza giustizia. E non c’è giustizia senza andare a prendere per mano gli ultimi della fila.
Come direbbe Francesco — e come Leone XIV ha mostrato col suo stile, la Chiesa si rinnova quando torna a guardare il mondo dal basso.
Dove Cristo ha scelto di nascere, di vivere, e di restare.

Un pacchetto completo sulla mattinata del Papa! Grazie per questa testimonianza di amore ai poveri. Immagino che lei sia un sacerdote francescano.