La recente decisione della Corte di giustizia dell’Unione Europea, che obbliga Polonia, Bulgaria, Romania e Slovacchia a riconoscere i matrimoni tra persone dello stesso sesso contratti in altri Paesi dell’Unione, ha fatto molto discutere. Ma, a ben vedere, per l’Italia non cambia nulla: il nostro Paese ha già un sistema giuridico perfettamente compatibile con il quadro europeo.

È bene ricordarlo, senza agitazioni e senza scorciatoie polemiche: dal 2016 esistono in Italia le unioni civili, introdotte dal governo Renzi proprio in ottemperanza alla sentenza Oliari della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

Fu l’Europa, dieci anni fa, a dire all’Italia: non potete non riconoscere alcuna forma di legame civile tra coppie dello stesso sesso.

Il legislatore italiano rispose creando un istituto proprio, distinto dal matrimonio, ma giuridicamente solido: una forma di riconoscimento che tutela la persona senza assimilare ogni forma affettiva alla visione matrimoniale tradizionale.

Ecco perché oggi non serve agitarsi: l’Italia non è la Polonia.

Abbiamo già ciò che la Corte UE richiede: un quadro normativo che garantisce i diritti individuali delle persone omoaffettive, evitando discriminazioni concrete su salute, proprietà, assistenza, vita comune, successioni.

Il nodo vero: distinguere i diritti individuali dai diritti collettivi

Il dibattito pubblico italiano sbanda spesso su un equivoco: pensare che ogni diritto individuale debba immediatamente tradursi in un “diritto collettivo” di portata culturale, simbolica e antropologica.

Ma non è così.

Un conto è garantire diritti individuali — successione, assistenza sanitaria, protezione patrimoniale, riconoscimento degli atti di stato civile esteri.

Un altro conto è ridefinire culturalmente istituti collettivi come il matrimonio, che appartengono alla tradizione giuridica, antropologica, spirituale di un popolo.

L’etica della ragione — e non solo la morale religiosa — suggerisce prudenza: le norme civili devono tutelare le persone, senza però snaturare istituti fondamentali della comunità.

È questo il principio che permette a uno Stato laico di rispettare tutti, senza trasformare ogni richiesta individuale in un cambiamento strutturale dell’ordine simbolico comune.

Il ruolo della Chiesa: chiarezza sul matrimonio, rispetto assoluto per la persona

In tutto questo, va ribadito ciò che la Chiesa cattolica afferma da secoli e che il recente documento del Dicastero per la Dottrina della Fede — Una Caro — ha nuovamente espresso con profondità: Il matrimonio è l’unione tra un uomo e una donna. Tra battezzati, non può essere che sacramento. L’amore umano ha una sacralità intrinseca, nella sua verità feconda, monogamica, secondo natura. Le forme liquide, intermittenti, autoreferenziali dell’amore contemporaneo non aiutano la crescita della persona né la stabilità della società.

Questo sul piano dottrinale.

E tuttavia, la stessa Chiesa — e il diritto canonico — invita a un altro atteggiamento, profondamente evangelico: il rispetto verso ogni persona è sacro. L’orientamento sessuale non definisce l’intera identità morale di un individuo.

Il cristiano non discrimina, non ridicolizza, non aggredisce. Il cristiano accompagna, ascolta, sostiene.

Ma al tempo stesso non può confondere: il rispetto dovuto alla persona non implica la neutralizzazione delle differenze naturali e antropologiche.

Il punto della sentenza UE: il riconoscimento, non l’equiparazione

La sentenza della Corte di giustizia UE non impone a nessuno di introdurre il matrimonio egualitario.

Dice una cosa molto più semplice e di buon senso: Nessuno smette di essere sposato superando un confine dell’Unione.

Gli Stati devono riconoscere lo status giuridico acquisito altrove, a tutela della libera circolazione e della vita familiare, ma possono decidere come riconoscerlo.

Ecco perché per l’Italia non cambia nulla. La nostra legge già prevede che: un matrimonio tra due persone dello stesso sesso contratto all’estero venga trascritto come unione civile.

È perfettamente conforme a diritto europeo.

Cosa resta aperto: una riflessione culturale e antropologica

Se sul piano giuridico il quadro è chiaro, sul piano culturale la questione rimane delicata.

Viviamo in un tempo in cui tutto rischia di diventare diritto, e ogni sentimento pretende lo status di istituzione.

Ma una società non cresce ampliando indefinitamente la categoria dei diritti, bensì custodendo le differenze, riconoscendo il valore delle minoranze senza però negare ciò che vale per tutti.

Gli omosessuali sono, numericamente, una minoranza.

E come ogni minoranza devono essere protetti, mai discriminati, mai umiliati, mai lasciati soli dinanzi alla fragilità o alla malattia.

Questo è civiltà.

Ma la protezione della minoranza non richiede necessariamente la trasformazione dell’antropologia comune, né l’omologazione di ogni esperienza affettiva alla forma matrimoniale naturale.

È in questo equilibrio — fragile, esigente, umano — che si gioca il futuro civile del Paese.

Uno Stato laico maturo, senza ideologie

La vera laicità non è contro la tradizione, né contro la religione, né contro la natura.

La vera laicità è la capacità di tenere insieme due principi:

  • tutela della persona
  • tutela dell’ordine simbolico della società

È questo che l’Italia ha fatto nel 2016.

Ed è per questo che la sentenza UE non cambia nulla per noi: perché avevamo già scelto la strada più equilibrata.

Riconoscere una coppia non significa ridefinire il matrimonio.

Proteggere la persona non significa confondere la natura.

Difendere i diritti non implica rinunciare alla ragione.

Ed è qui, forse, che si misura la maturità democratica di un Paese: nel saper distinguere senza dividere, nel saper rispettare senza rinunciare alla verità dell’umano.