Nella Basilica di San Pietro, illuminata dalla luce solenne della festa della Trinità, Papa Leone XIV ha consegnato al mondo dello sport una visione nuova, profondamente radicata nel Vangelo e nella tradizione più audace della teologia cristiana. Non una catechesi per specialisti né un discorso generico sullo sport come “valore”, ma un’ermeneutica mistica e concreta insieme, capace di legare il giocare di Dio con il giocarsi dell’uomo.
«Dio non è statico»: così, sin dalle prime battute, il Papa ha disinnescato ogni lettura astratta del dogma trinitario. Il Dio cristiano, ha detto, è relazione viva, comunione in movimento, danza eterna di amore reciproco. E se la teologia chiama questa realtà “pericoresi”, Papa Leone ne ha fatto un ponte diretto con il mondo dello sport. Come la Trinità è dinamica, così l’atleta è chiamato alla relazione, al dono, al gioco serio della gratuità.
C’è un punto, nell’omelia, in cui il Papa si sofferma su quella piccola parola urlata dagli spalti: «Dai!». Un imperativo semplice, che in italiano significa “dare”, ma che nelle arene dello sport diventa incitamento, fiducia, impulso. Leone XIV lo assume come icona vocazionale dello sportivo cristiano: non semplicemente un corridore, ma un donatore di sé, uno che scende in campo non per dominare, ma per partecipare, per “giocarsi” totalmente in favore di altri.
L’omelia è percorsa da una tensione teologica alta e umana insieme. Il riferimento a un “Deus ludens”, un Dio che gioca, tratto da alcuni Padri della Chiesa, spalanca una lettura sapienziale e provocatoria del mistero divino. Il Creatore non solo “lavora”, ma gode nella sua opera, si compiace della bellezza che nasce dalla relazione, come ci ricorda il libro dei Proverbi: «Giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo». Se il Dio trinitario gioca, l’uomo, fatto a sua immagine, non può trovare pienezza nella prestazione, ma nella gioia condivisa.
Papa Leone XIV individua tre ferite della società contemporanea che lo sport, se vissuto nello spirito giusto, può contribuire a sanare: la solitudine dell’individualismo, la virtualità disincarnata del digitale e il cinismo della competizione assoluta. In queste parole risuona un profondo appello educativo: lo sport di squadra diventa un laboratorio di fraternità, la fatica fisica un antidoto alla fuga nei mondi paralleli, la sconfitta un’occasione di verità e di speranza. Chiunque abbia conosciuto il campo — o la pista, o la pedana — sa bene che non si impara a vincere se non si impara prima a perdere.
Lo sport, nella visione del Papa, è anche luogo di spiritualità, via pedagogica verso la santità. Da san Giovanni Paolo II — il “Papa sportivo” — al giovane Pier Giorgio Frassati, fino a san Paolo VI e alle sue parole vibranti sul dopoguerra, la Chiesa custodisce una memoria di atleti della fede, di corpi mossi dallo Spirito. Nessuno nasce campione, dice il Papa, e nessuno nasce santo: è l’allenamento dell’amore che ci forma. Così, in un mondo che ha ridotto l’umano a efficienza e successo, il Giubileo degli sportivi diventa un contrappunto profetico: la santità come corsa condivisa, come gioco in cui l’unica vittoria è quella dell’amore fedele.
C’è poi, sul finire, un’immagine mariana che commuove: Maria “di corsa” verso la cugina Elisabetta. Il Papa, riprendendo Francesco, vede in lei la sportiva per eccellenza, la madre che si muove, che soccorre, che parte al primo cenno di Dio. In fondo, anche il Vangelo — come lo sport — è questione di movimento, di velocità del cuore, di capacità di “scattare” non per se stessi ma per gli altri.
La vittoria definitiva? Non è il podio, ma il campo infinito dell’eternità. Dove, dice il Papa, «la gioia sarà piena e il gioco non avrà più fine». Una teologia leggera e profondissima, capace di attraversare le corsie dell’atletica e i deserti della solitudine umana con un’unica certezza: la Trinità gioca con noi, se siamo disposti a giocare con amore.
Fortissimo questo Papa! Bellissimo l’articolo!