Elogio di un “noi” che resiste

Nel tempo dei legami liquidi e dell’amore “a tempo determinato”, il nuovo documento “Una caro” (una sola carne) del Dicastero per la Dottrina della Fede rilancia con forza la profezia silenziosa della fedeltà: l’unione esclusiva tra un uomo e una donna non è un residuo del passato, ma il segno più luminoso della speranza cristiana nel futuro dell’umano. Un “noi” che nasce da Dio e che, proprio per questo, continua a salvare ciò che la cultura contemporanea rischia di disperdere.

In un tempo in cui tutto sembra moltiplicarsi – identità fluide, legami estesi, possibilità senza confini – c’è ancora un luogo dove la matematica dell’anima resta ostinatamente semplice: uno più uno fa uno. Non è un gioco di parole, né un romanticismo d’altri tempi. È la grammatica elementare dell’amore che si promette, dell’amore che sceglie, dell’amore che non fugge. È la monogamia: parola che oggi suona come una reliquia, e che invece custodisce un futuro.

Il documento Una caro non difende un modello sociale sorpassato: narra una esperienza universale, che attraversa Bibbia, filosofia, poesia. Dice, con calma disarmante, che l’essere umano è fatto così: non basta la moltitudine, non basta l’ebbrezza del possibile. Perché il cuore trova senso non quando possiede molti, ma quando si consegna a uno.

E scopre, sorprendentemente, che questa consegna non lo limita: lo amplifica.

È un paradosso che l’Occidente fatica a comprendere. Nella cultura dell’illimitato – dove la tecnologia promette nuovi inizi a comando, nuove identità ad ogni algoritmo – la fedeltà sembra una rinuncia, un “no” gridato al mondo. Ma la tradizione biblica ribalta la scena: il “noi” coniugale non è una clausola, è una rivelazione. È il volto umano di quell’unico amore che sostiene la storia: «il mio amato è mio e io sono sua», canta la Sposa del Cantico. È lì, nel sigillo di due esistenze intrecciate, che sboccia una verità arcaica e modernissima: nessuno può essere se stesso senza un volto che lo guarda per sempre.

Il Magistero, lungo i secoli, ha custodito questa intuizione non come una legge matrimoniale, ma come una teologia dell’umano. Per questo i Padri parlavano di carne condivisa, di fianco a fianco nel cammino, di due libertà che osano diventare una volontà sola. E la modernità spirituale – da Wojtyła a von Balthasar – ha mostrato che l’amore esclusivo non è una controfigura di quello divino: ne è l’icona. Il “noi” dei coniugi è ciò che più somiglia alla comunione trinitaria nella fragilità delle nostre mani.

Ma la delicatezza più alta di Una caro è altrove. È nella poesia che vibra tra le sue pagine. Il documento non teme di dirlo apertamente: l’amore monogamico è un’arte, una musica imparata a passi lenti. È sigillo, fedeltà, ma anche amicizia. È un “tu” che non divora, ma rivela. Un “io” che non si annulla, ma si espande. E soprattutto è uno spazio in cui l’altro non è un oggetto da consumare, ma un mistero da contemplare.

In una stagione in cui tutto si può cambiare, in cui il desiderio viene trattato come un diritto infinito e il legame come un accessorio, questa Nota sembra suggerire un pensiero controcorrente: scegliere una sola persona è l’atto più rivoluzionario possibile.

Perché significa credere che la libertà non si misura in orizzonti spalancati, ma nella profondità di una sola radice.

Che l’amore non cresce nella dispersione ma nella concentrazione.

Che la felicità non è somma, ma unità.

Forse, allora, “una sola carne” non è tanto un comandamento, quanto una nostalgia. La nostalgia di ciò che siamo quando non abbiamo paura d’amare davvero. Quando possiamo dire – senza vergogna e senza timore – quel minuscolo, indistruttibile pronome plurale: noi.