La Cassazione conferma l’assoluzione di Matteo Salvini nel caso Open Arms e chiude definitivamente il capitolo giudiziario. Ma la decisione, pur escludendo responsabilità penali, non archivia il confronto politico ed etico sulle scelte compiute nel governo dei flussi migratori, né la domanda – cara alla coscienza cristiana – su come coniugare legalità, soccorso in mare e tutela della vita umana.

La decisione della Corte di cassazione che ha confermato l’assoluzione di Matteo Salvini nel caso Open Arms chiude una lunga e controversa vicenda giudiziaria, ma non esaurisce il dibattito etico, politico e culturale che essa ha generato. È una sentenza che va letta con sobrietà, distinguendo con cura i piani: quello della responsabilità penale, definitivamente esclusa, e quello delle scelte pubbliche, che restano legittimamente oggetto di valutazione critica.

La Cassazione non ha riscritto la storia di quei giorni dell’agosto 2019, né ha riconsiderato i fatti. Ha svolto il suo compito di giudice di legittimità, verificando che l’assoluzione pronunciata dal Tribunale di Palermo fosse conforme alla legge. E lo ha fatto anche alla luce della posizione del procuratore generale, che pur riconoscendo una violazione in materia di diritto d’asilo, ha ritenuto non dimostrati gli elementi necessari per configurare un reato penale, a partire dal dolo. In altre parole, il processo non ha potuto trasformarsi in una sanzione giudiziaria di una linea politica.

È qui che si colloca il punto più delicato. La formula assolutoria “il fatto non sussiste” non equivale a una legittimazione generalizzata di ogni scelta compiuta in nome della difesa dei confini. I giudici di Palermo, le cui motivazioni restano centrali anche dopo il vaglio della Cassazione, hanno anzi affermato un principio di rilievo: il soccorso in mare, compiuto nel rispetto delle convenzioni internazionali, non rende di per sé illegittimo l’ingresso di una nave nelle acque territoriali. Il transito non è automaticamente un atto ostile, né tantomeno un favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

Da questo punto di vista, la sentenza smonta una narrazione semplificata e contrappositiva, che riduce la complessità del fenomeno migratorio a una sfida tra legalità e illegalità. La giustizia ha detto che non c’erano gli estremi per una condanna penale. Non ha detto che la questione migratoria possa essere risolta attraverso atti unilaterali, né che il diritto del mare e il diritto d’asilo siano elementi secondari o negoziabili.

Per un Paese come l’Italia, affacciato sul Mediterraneo e segnato da una lunga tradizione di umanità e accoglienza, questa vicenda continua a interpellare la coscienza collettiva. La distinzione tra ciò che è penalmente rilevante e ciò che è moralmente e politicamente giusto non è un artificio retorico, ma una necessità democratica. La legge penale non può sostituirsi al giudizio sulla qualità delle politiche pubbliche, né tantomeno alla responsabilità di proteggere la vita umana.

La Chiesa, che Avvenire cerca di raccontare e interpretare, non entra nei processi per emettere sentenze alternative. Ma continua a ricordare che il criterio ultimo resta la persona, soprattutto quando è fragile, ferita, in fuga. La sentenza della Cassazione chiude un capitolo giudiziario. Resta aperta, e non può essere archiviata, la domanda su quale idea di giustizia, di sicurezza e di umanità vogliamo affidare al nostro futuro comune.