Una bambina appena nata, strappata alla madre dalle autorità municipali e data in affidamento in base a un controverso test psicometrico di “competenza genitoriale”, vietato dalla legge perché considerato razzista. È accaduto in Danimarca, nel cuore dell’Europa che ama presentarsi come culla di civiltà e diritti. Eppure la scena che si è consumata in un ospedale di Hvidovre richiama piuttosto i fantasmi di un’epoca buia, in cui la maternità si giudicava con criteri di laboratorio e non con il linguaggio dell’amore.

La protagonista è Nikoline Bronlund, appena diciottenne, di etnia Inuit, originaria della Groenlandia. Ha partorito una bambina che non ha potuto tenere fra le braccia: un’ora dopo il parto, i servizi sociali le hanno tolto la figlia. Da allora, può vederla due volte al mese, per appena due ore, sotto sorveglianza e senza il permesso di compiere nemmeno i gesti più naturali, come cambiare il pannolino.

Non si tratta di una svista burocratica, ma di una ferita profonda inflitta alla dignità di una madre. Il motivo? Un test che la giudicherebbe “incapace di crescere la figlia” perché segnata da un passato di abusi subiti dal padre adottivo. Come se la vittima dovesse pagare due volte: prima con la violenza, poi con la sottrazione del diritto alla maternità.

Indignazione è la sola parola possibile. Indignazione verso un sistema che brandisce la scienza come clava per schiacciare i più fragili. Indignazione verso un padre adottivo che con le sue colpe ha marchiato ingiustamente il destino della figlia adottiva. Indignazione, soprattutto, verso una legge applicata con una freddezza glaciale, degna più dei ghiacci scandinavi che del cuore umano.

La legge danese, modificata pochi mesi fa, ha escluso l’uso di quei test per gli Inuit, riconoscendone la natura discriminatoria. Eppure i servizi sociali hanno deciso di aggirarla, sostenendo che Nikoline “non era abbastanza groenlandese”. Una giustificazione che rasenta il paradosso e che suona come un insulto alla logica e alla giustizia.

La protesta che si è alzata da Copenaghen, Nuuk e persino da Reykjavík e Belfast dimostra che la coscienza civile non è morta. La stessa ministra per gli Affari sociali ha chiesto chiarimenti e un riesame della decisione. Ma resta l’amarezza di una vicenda che mostra come anche le democrazie più avanzate possano inciampare nell’arroganza di apparati burocratici incapaci di guardare in faccia una giovane madre e vedere non un fascicolo da archiviare, ma una persona da accompagnare.

La Chiesa ha una parola precisa da dire davanti a storie come questa: la maternità non si misura con i test, non si concede per decreto. È dono e responsabilità, sì, ma soprattutto è relazione viva tra una madre e suo figlio. Spezzare questo legame con motivazioni inconsistenti significa aprire una ferita che griderà per generazioni.

E mentre la Groenlandia discute la sua autonomia e persino la tentazione di chi vorrebbe “comprarla”, questa storia ci ricorda che i popoli e le persone non sono merce di scambio. Né lo sono i bambini, strappati all’abbraccio della madre da una legge gelida e da un padre indegno.

L’Europa non può tacere: o torna a essere la terra che difende i diritti umani, oppure rischia di scivolare in un inverno morale peggiore di qualunque gelo del Nord.