La solitudine di Maria Rosaria e la resa dello Stato

Ci sono delitti che, più che fatti di cronaca, somigliano a una radiografia crudele del nostro tempo. La storia di Noemi Riccardi, 23 anni, uccisa a coltellate dal fratello Vincenzo in un appartamento di San Paolo Bel Sito, non è solo l’ennesima tragedia familiare esplosa tra le pieghe del disagio psichico. È il manifesto di una solitudine più vasta: quella di una madre che, mentre chiedeva aiuto, veniva lasciata cadere nel vuoto.

«Ho fatto denunce, ho chiesto aiuto, ma mi hanno lasciata sola», ripete Maria Rosaria Tommasino, la madre di Noemi, con una voce che sembra portare addosso secoli di sconfitte. Quelle parole non raccontano soltanto un dolore: denunciano un fallimento pubblico. Maria Rosaria sapeva che suo figlio aveva bisogno di essere preso per mano da qualcuno più forte di lei. «Se lo avessero portato in una clinica specializzata non sarebbe andata così». È una frase che non urla vendetta, ma constatazione: quella di una donna che, da sola, aveva già visto l’ombra arrivare.

La madre che non è stata ascoltata

La vicenda, per come la racconta la donna, sembra segnata da un crescendo inesorabile. Aggressioni, litigi, denunce mai sufficientemente accolte. Vincenzo, 25 anni, aveva una rabbia che covava da tempo. E quella collera, forse alimentata da problemi psicologici mai realmente affrontati, cercava un bersaglio.

Noemi, la sorella più fragile – lenta nei movimenti, bisognosa di più tempo perfino per lavarsi, come racconta la madre – era diventata il punto su cui si concentrava l’intolleranza del fratello. «Non sopportava che lei fosse lenta», dice Maria Rosaria. Come se la fragilità fosse un’offesa personale, una provocazione.

Perfino il movente è un grido contro il silenzio delle istituzioni: «Uccidendo Noemi ha voluto punire me per le denunce». Una ritorsione familiare che diventa monito pubblico: quando un pericolo viene ignorato, quel pericolo esplode.

La videochiamata – la crudeltà oltre il delitto

Vincenzo non si è fermato all’omicidio. Ha chiamato la madre, mostrando il corpo senza vita della figlia. Un gesto che supera il confine della violenza: è un atto di dominio, di accusatoria definitiva. È come se il ragazzo avesse detto: “Hai voluto denunciar­mi? Ecco il risultato”.

Maria Rosaria, davanti alla telecamera di Rai Due, fissa il vuoto e ricorda l’attimo in cui ha visto il corpo della figlia immerso nel sangue. Non c’è verbo che basti a descrivere ciò che gli occhi umani non dovrebbero mai vedere. Ma c’è una certezza: quella donna è stata lasciata sola troppo presto e troppo a lungo.

Il crinale spezzato tra affetto e paura

Ogni madre tiene insieme due sentimenti opposti: la protezione e la condanna. «Anche lui è mio figlio», dice. Ma aggiunge: «È cattivo. Non ce la faccio a perdonarlo». In queste parole non c’è giudizio, c’è verità. È il dolore di chi ha tentato tutto: ha amato, temuto, denunciato, pregato. Ma nulla ha potuto salvare i suoi figli da un destino che non avrebbe dovuto compiersi.

Questa tragedia ci costringe a guardare oltre la superficie. Non si tratta soltanto di “un altro femminicidio” o di “un caso di follia familiare”. Qui c’è l’assenza cronica di una rete di protezione: per chi è fragile, per chi convive con disturbi comportamentali che possono diventare pericolosi, per chi, come Maria Rosaria, ha bussato alle porte giuste ma non ha trovato nessuno disposto ad aprire.

Quando lo Stato arriva dopo

Ogni volta che una madre dice «Mi hanno lasciata sola», lo Stato perde un pezzo della sua legittimità. Non perché debba sostituirsi alla famiglia, ma perché deve affiancarla quando la famiglia non ce la fa più. Non è solo una questione di risorse: è cultura, di ascolto, di capacità di leggere i segnali prima che sia troppo tardi.

La società che pretende ordine e sicurezza non può voltarsi dall’altra parte quando un cittadino chiede aiuto. Non possiamo limitarci a contare le vittime: dobbiamo contare le occasioni mancate.

La lezione che non dobbiamo dimenticare

Noemi è morta in casa sua, nel luogo che avrebbe dovuto proteggerla. È stata uccisa da un fratello che avrebbe avuto bisogno – prima di chiunque altro – di cure, di vigilanza, di una mano esperta. Maria Rosaria resta oggi l’immagine di un’Italia che lotta da sola, che denuncia e non viene ascoltata, che ama e non riesce a salvare.

Questa non è una storia chiusa. È un avvertimento.

Non basta indignarsi: bisogna correggere.

E forse la giustizia che Maria Rosaria chiede non sta solo nelle aule dei tribunali, ma nelle scelte politiche – e umane – che impediscono che altre madri, domani, ripetano le sue stesse parole:

«Ho chiesto aiuto, ma mi hanno lasciata sola».