La kermesse di domenica scorsa in Arizona diventa una grande tenda dell’odio con il cappello istituzionale di J.D. Vance.

C’è un momento in cui un movimento smette di interrogarsi sul futuro e comincia a temerlo. A Phoenix, sotto le luci rosse di AmericaFest, la convention annuale di Turning Point USA, quel momento è arrivato. Non per colpa dei nemici esterni, ma per implosione interna: antisemitismo tollerato, complottismo sdoganato, odio travestito da libertà di parola.

Il palco che fino a pochi anni fa pretendeva di rappresentare il “nuovo conservatorismo americano” oggi assomiglia più a una zona franca morale, dove tutto è ammesso purché utile, e nulla è escluso purché applaudito. Qui non si discute più se un’idea sia vera o giusta, ma se porti voti, engagement, follower.

Il discorso del vicepresidente JD Vance è stato rivelatore. “Combatterò al fianco di tutti voi, ognuno”, ha detto. Non una parola sulle linee invalicabili, non una distinzione tra dissenso e odio, tra pluralismo e tossicità ideologica. La grande tenda evocata da Vance non è inclusiva: è indifferente. E l’indifferenza, in politica, è sempre una scelta morale.

Un anno fa, questa stessa platea si stringeva attorno alla figura carismatica di Charlie Kirk, giovane e aggressivo, ma ancora capace di tenere insieme una narrazione. La sua morte violenta ha fatto il resto: non ha prodotto lutto, ma mitologia, non memoria, ma sospetto. Le teorie del complotto hanno trovato terreno fertile proprio dove si proclamava la difesa della verità.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Ben Shapiro che lancia l’allarme contro l’antisemitismo crescente; Candace Owensche lo alimenta; Tucker Carlson che offre microfoni “neutri” a negazionisti dell’Olocausto come Nick Fuentes; e una platea che applaude, fischia, si divide. Non è più una coalizione: è una rissa ideologica permanente.

Turning Point USA non è più un laboratorio politico: è un amplificatore di pulsioni. Non forma coscienze, ma addestra risentimenti. Non educa al pensiero critico, ma alla semplificazione paranoica. E quando qualcuno, come Vivek Ramaswamy, osa dire che l’America non è proprietà ereditaria di una razza o di un “patrimonio”, viene trattato come un corpo estraneo.

Il problema non è la destra americana. Il problema è questa destra. Una destra che ha smesso di credere nella responsabilità della parola, nella distinzione tra fede e fanatismo, tra identità e idolatria. Una destra che invoca Dio, la nazione e il cristianesimo mentre legittima l’insulto etnico, la derisione razziale, la disumanizzazione dell’altro.

A Phoenix, nel dicembre 2025, Turning Point USA ha mostrato il suo punto di rottura. Non tra moderati ed estremisti, ma tra chi pensa che la politica abbia ancora bisogno di limiti morali e chi ritiene che l’unico limite sia perdere.

Quando la “libertà di parola” diventa l’alibi per non dire mai una parola di condanna, non è più libertà. È codardia elevata a strategia.

E da lì, la deriva non è un rischio futuro. È già cominciata.