“Ho finito con sei guerre in sei mesi”. Con questa frase, ripetuta come un mantra, Donald Trump prova a scolpire la sua immagine di mediatore globale. Ma dietro la formula ad effetto, che suona più come slogan elettorale che come analisi geopolitica, si nascondono più ombre che luci.

Il presidente americano rivendica una mediazione da Guinness dei primati: Armenia e Azerbaigian, Congo e Ruanda, Israele e Iran, India e Pakistan, Cambogia e Thailandia, Egitto ed Etiopia, Serbia e Kosovo. “Una guerra al mese”, si vanta. Ma a guardare da vicino, quelle che chiama “guerre concluse” sono in realtà tregue fragili, dispute congelate, accordi parziali o addirittura conflitti mai esistiti come guerre in senso stretto — il caso di Egitto ed Etiopia è emblematico, trattandosi di tensioni per la diga del Nilo e non di un conflitto armato.

Trump gioca su un terreno ambiguo: da un lato, sa che l’opinione pubblica americana è stanca di conflitti senza fine e cerca un presidente che “porta a casa la pace”; dall’altro, alimenta la sua personale campagna per il premio Nobel per la pace, evocato sempre più spesso nei suoi discorsi. L’idea del “capo pacificatore” torna nelle parole dei suoi alleati repubblicani, ma stride con la realtà dei fatti: per esempio, il cessate il fuoco tra Iran e Israele è arrivato dopo bombardamenti americani su impianti nucleari iraniani. È pace se nasce da un’escalation militare?

In questo gioco di specchi, la diplomazia si confonde con il marketing politico. Trump usa le tariffe commerciali come arma di pace, minaccia e premia, alza i toni e li abbassa a seconda della convenienza. Alcuni risultati ci sono, certo, come il riavvicinamento tra Armenia e Azerbaigian. Ma spesso sono equilibri precari, accordi firmati a Washington che non reggono alla prova del tempo.

Il paradosso è che Trump, nel presentarsi come “presidente della pace”, si espone a una contraddizione continua: rivendica di fermare guerre mentre non esita a usare la forza militare come strumento negoziale. Il suo pacifismo è muscolare, non disarmato.

Al fondo resta una domanda: quanto c’è di vero nelle guerre che Trump dice di aver chiuso, e quanto invece è solo parte della sua narrazione per rafforzare l’immagine di uomo forte, capace di ridare all’America il ruolo di arbitro globale?

Forse la chiave è tutta qui: più che di un premio Nobel, Trump ha bisogno di un racconto che lo consacri come vincitore. Non importa se la pace è reale o provvisoria, se le guerre sono finite davvero o solo sospese. L’essenziale, per lui, è che il mondo lo veda come il protagonista. In fondo, il “pacificatore” secondo Trump non è chi costruisce ponti duraturi, ma chi riesce a trasformare la diplomazia in spettacolo.