Tre carabinieri morti, quindici feriti, una casa ridotta in macerie. A Castel d’Azzano, nella campagna veronese, la disperazione di tre fratelli sotto sfratto è esplosa letteralmente, trasformando un dramma sociale in una tragedia nazionale. Dietro la follia del gesto restano la rabbia di chi perde tutto, la responsabilità di chi deve far rispettare la legge e il dolore di un Paese che non può più ignorare la distanza tra giustizia e umanità.
Le case, a volte, non crollano solo per le esplosioni. Crollano prima, lentatragedia di Castel d’Azzanomente, quando smettono di essere un rifugio e diventano un’ossessione. È quello che è accaduto a Castel d’Azzano, in provincia di Verona, dove tre fratelli — Franco, Dino e Maria Luisa Ramponi — si erano barricati nel loro casolare per difendere ciò che consideravano la vita stessa: la casa di famiglia, il simbolo di un’esistenza che la crisi economica e le carte bollate avevano smantellato.
Ma nel momento in cui la disperazione si trasforma in rabbia cieca, la difesa diventa offesa, e il dolore diventa colpa.
L’esplosione che ha travolto tre carabinieri e ferito altri quindici tra militari, poliziotti e vigili del fuoco non è solo un fatto di cronaca nera. È il ritratto, amarissimo, di un Paese in cui la questione della casa e degli sgomberi è ormai una ferita sociale profonda.
La rabbia e la solitudine
I fratelli Ramponi non erano terroristi, ma persone comuni. Agricoltori indebitati, forse vittime di un errore giudiziario o di una firma mal gestita, convinti di essere stati ingannati. Per anni avevano resistito a ordini di sfratto e a pignoramenti, trasformando il loro dolore in ostilità verso chi rappresentava lo Stato. La casa era diventata un fortino, e loro, da contadini, si erano fatti guerriglieri. Eppure, non c’è giustificazione possibile per ciò che hanno fatto. Saturare un’abitazione di gas, piazzare bombole e molotov, tendere una trappola mortale a chi stava solo eseguendo un ordine di giustizia: è un gesto che oltrepassa ogni limite umano e civile. E per questo va chiamato con il suo nome: crimine. Non ribellione, non protesta, non gesto disperato. Crimine.
Gli innocenti dell’uniforme
I tre carabinieri morti — Marco Piffari, Davide Bernardello e Valerio Daprà — non erano “nemici”.
Erano servitori dello Stato, uomini che avevano accettato il rischio quotidiano di essere bersaglio della follia altrui pur di garantire legalità e sicurezza.vSono morti per difendere un principio semplice ma essenziale: che la legge non può essere sostituita dalla vendetta personale.vA loro va la riconoscenza di un Paese che troppo spesso si accorge dei carabinieri solo quando cadono.
Eppure, anche loro — in quell’alba di Castel d’Azzano — erano uomini tra uomini, non macchine del potere.vSapevano che stavano affrontando una situazione tesa, che dietro quelle mura c’era disperazione, non strategia militare.. Sono andati per dialogare, non per uccidere. Ed è questo che rende la loro morte ancora più ingiusta: sono caduti nella trappola di chi non ha più creduto nel dialogo.
I carabinieri morti a Castel d’Azzano hanno fatto il loro dovere.
I fratelli che li hanno uccisi hanno perso tutto, anche l’anima.
Una guerra che nessuno vince
Gli sgomberi sono una delle pagine più difficili della convivenza civile. Chi perde la casa sente di perdere sé stesso.
Chi la difende, magari come proprietario o come banca creditrice, rivendica un diritto altrettanto reale.
Tra questi due poli, lo Stato si trova nel mezzo: costretto a scegliere tra la legge e la pietà, e spesso condannato da entrambi.
Ogni sfratto è una piccola tragedia domestica, e ogni sgombero può diventare una miccia sociale. Ma quando si arriva a saturare un casolare di gas, significa che la mediazione è morta prima dell’esplosione. Abbiamo costruito un Paese dove la solitudine economica e la rabbia civile si toccano, e dove il linguaggio della violenza è più immediato di quello del diritto.
a casa come simbolo e come ferita In Italia, la casa è più di un bene: è un prolungamento dell’anima familiare. Perdere la casa, per molti, è come morire. È questo il nucleo di rabbia che attraversa le cronache degli ultimi anni, dagli sfratti urbani alle campagne indebitate. Una rabbia che spesso si riversa contro chi ne è solo l’esecutore: il poliziotto, il carabiniere, l’ufficiale giudiziario. Gli ultimi anelli di una catena che parte da decisioni politiche e giudiziarie lontane. Per questo serve un ripensamento collettivo: non per giustificare l’odio, ma per prevenirlo. Perché la violenza è sempre figlia di una disattenzione precedente: l’incapacità di vedere il dramma umano prima che esploda.
Condannare, capire, ricostruire
Condannare senza comprendere genera solo altra rabbia. Comprendere senza condannare, invece, è irresponsabile. Occorre tenere insieme entrambe le cose: la solidarietà piena alle vittime e alle forze dell’ordine, e la lucidità di leggere le crepe sociali che attraversano il Paese. Castel d’Azzano non può diventare una semplice pagina nera. Deve essere un monito: che lo Stato non si difende solo con i blindati, ma con la presenza umana, la prevenzione, l’ascolto, la rete dei servizi sociali, delle parrocchie, delle comunità locali. Che la sicurezza non nasce solo dalla forza, ma anche dalla giustizia sociale.