Il Giubileo dei detenuti

C’è una scelta che colpisce, più di molte parole, nell’omelia di Leone XIV per il Giubileo dei detenuti: celebrare la speranza là dove, per definizione, essa sembra più fragile. Non ai margini, ma al cuore della Basilica di San Pietro. Non in un contesto astratto, ma con lo sguardo fisso sulle celle, sui corridoi, sui volti segnati dalla colpa e spesso dall’abbandono. È un gesto che dice già tutto: per la Chiesa il carcere non è un “fuori”, ma un dentro doloroso della storia umana.

Il Papa ha collocato il Giubileo dei detenuti nella domenica del Gaudete, la domenica della gioia. Una provocazione evangelica, prima ancora che pastorale. Perché qui la gioia non è evasione, né indulgenza sentimentale: è fiducia ostinata che l’ultima parola non sia la condanna. È la convinzione, profondamente cristiana, che nessun uomo coincida definitivamente con il suo reato. La speranza, nel linguaggio del Vangelo, non è ottimismo psicologico ma possibilità reale di riscatto.

L’asse dell’omelia è chiaro: Dio è Colui che libera, che riscatta, che non si rassegna a perdere nessuno. Isaia, Giovanni il Battista, Gesù, Agostino: tutto converge verso un’idea di giustizia che non è mai pura retribuzione, ma sempre processo di riconciliazione. Leone XIV non nega la durezza del carcere, né i suoi fallimenti strutturali – sovraffollamento, carenza educativa, lavoro insufficiente – ma rifiuta la scorciatoia della rassegnazione. Il carcere resta un ambiente difficile, dice, ma proprio per questo non è lecito smettere di credere.

Qui emerge, con forza, la posizione storica della Chiesa sulla detenzione. Fin dalle sue radici evangeliche, il cristianesimo ha guardato al carcere non come a un “deposito di colpevoli”, ma come a un luogo dove la dignità umana è messa alla prova. «Ero in carcere e siete venuti a trovarmi» non è una metafora spirituale: è una linea di confine. La Chiesa non si è mai sottratta al compito di accompagnare, denunciare, correggere. Dai cappellani penitenziari alle prese di posizione dei papi contemporanei, il carcere è stato letto come uno specchio della civiltà.

In questa omelia, la tradizione si innesta sull’attualità. Il richiamo alla Spes non confundit e all’auspicio di amnistie e condoni non è un cedimento al buonismo, ma una rivendicazione teologica: il Giubileo, nella Bibbia, è tempo di restituzione, di liberazione, di nuovo inizio. Dove la pena diventa cieca, dove non apre varchi di reinserimento, la giustizia si snatura. E lo Stato, ammonisce indirettamente la Chiesa, tradisce la sua funzione educativa.

C’è un passaggio particolarmente incisivo: il lavoro sui sentimenti, sui pensieri, sulla misericordia non è richiesto solo ai detenuti, ma prima ancora a chi amministra la giustizia. È una rottura di schema potente. La conversione non è a senso unico. Anche le istituzioni sono chiamate a interrogarsi, a purificare il proprio sguardo, a non trasformare la pena in vendetta sociale.

Il carcere, così, diventa un luogo teologico nel senso più alto: uno spazio in cui si misura la verità del Vangelo vissuto. Tra le mura della prigione – dice il Papa – possono sbocciare fiori inattesi. Non per magia, ma quando restano vivi il rispetto, la responsabilità, la capacità di perdono. È la “civiltà dell’amore” evocata da Paolo VI: non uno slogan, ma un criterio politico e sociale.

Nel tempo che conduce al Natale, l’omelia si chiude con una frase che suona come un programma ecclesiale e civile: che nessuno vada perduto. È il sogno di Dio, ma anche la cartina di tornasole di una società giusta. Una Chiesa che entra nelle carceri non per assolvere i reati, ma per custodire l’uomo, ricorda a tutti che la speranza non è un lusso per pochi, ma un diritto che riguarda anche – e forse soprattutto – chi vive dietro le sbarre.