Le parole del primo ministro giapponese Sanae Takaichi, pronunciate in un’aula della Dieta e poi difese con fermezza, hanno riaperto un tema che da decenni giace sotto la superficie della politica giapponese: fino a che punto il Giappone è disposto a spingersi per difendere se stesso — e gli Stati Uniti — in caso di crisi nello Stretto di Taiwan?

Le sue dichiarazioni, che evocavano uno “scenario di minaccia per la sopravvivenza”, hanno toccato una fibra sensibile nella memoria collettiva giapponese: quella di un Paese che, pur legato a Washington da un’alleanza militare, vive ancora all’ombra della propria Costituzione pacifista. La “situazione di minaccia di sopravvivenza” è la formula giuridica che, dal 2015, consente alle Forze di autodifesa di partecipare ad azioni militari in sostegno di alleati sotto attacco. Ma definirla in pubblico, e soprattutto collegarla a Taiwan, significa toccare il nervo geopolitico più scoperto dell’Asia.

Takaichi non ha ritrattato, ma ha promesso “maggiore cautela” nel futuro. Un segnale che riflette la tensione crescente tra la prudenza diplomatica e la necessità di deterrenza. In un’epoca in cui la Cina di Xi Jinping proietta potenza navale e economica su tutto il Pacifico, ogni parola del Giappone — prima potenza tecnologica e alleato strategico di Washington — pesa come un atto politico.

Dietro questo scontro dialettico c’è molto di più: un Giappone che cambia volto. La prima ministra, nota per le sue posizioni conservatrici, ha già incontrato Xi Jinping ad APEC, parlando di “dialogo costruttivo”, ma anche esprimendo “serie preoccupazioni” su Taiwan, Hong Kong e Xinjiang. È la diplomazia del doppio registro: tesa a bilanciare fermezza e pragmatismo, deterrenza e interdipendenza economica.

Nel frattempo, la nuova strategia di difesa statunitense segna una possibile svolta. Il presidente Trump, tornato alla Casa Bianca, sembra voler ridisegnare la “linea di difesa” americana nel Pacifico, privilegiando la sicurezza interna rispetto agli impegni globali. Se così fosse, il Giappone si troverebbe di fronte a un bivio: diventare davvero protagonista della propria sicurezza, o restare ancorato a un’alleanza che potrebbe indebolirsi.

L’analista Ken Jimbo, dell’Università Keio, ha colto il paradosso: “Discutere pubblicamente gli scenari di crisi può rafforzare la deterrenza, ma anche rivelare troppo all’avversario”. È il dilemma delle democrazie: mostrare coesione senza svelare le carte, difendere la trasparenza senza compromettere la sicurezza.

In fondo, la domanda che oggi attraversa Tokyo, Washington e Pechino è la stessa: dove passa la linea della sopravvivenza?

Nel mondo multipolare che si sta ridisegnando, il Giappone non può più limitarsi a essere un alleato fedele. Deve scegliere se essere un attore strategico o un osservatore protetto. Ma la prudenza, in Asia, non è codardia: è l’arte sottile di resistere senza provocare.

E Takaichi, con la sua fermezza misurata, lo sa bene.