Risolto il giallo di Nardò. La ragazza si era nascosta nella casa del fidanzato, poco distante dai genitori
La scomparsa di Tatiana Tramacere, finita in una mansarda di Nardò tra suspence collettiva e ipotesi contrastanti, non è solo un giallo di cronaca: è uno specchio di fragilità personali, reazioni pubbliche estreme e responsabilità che nessuno può fingere di non vedere.
Alla fine, dietro il “giallo” che ha tenuto l’Italia incollata allo schermo per dieci giorni, c’era una mansarda di cinquanta metri quadri a Nardò, un gattino trovato insieme in un parco, una storia d’amore più o meno sbilenca, e un silenzio troppo lungo. Tatiana Tramacere, 27 anni, scomparsa il 24 novembre, era lì, in via Tafuri, accovacciata in un vano secondario collegato alla mansarda presa in affitto dall’amico – o fidanzato – Dragos Ioan Gheormescu, 30 anni. Quando i carabinieri l’hanno trovata, impugnava un coltellino ed era spaventata. Le sue prime parole sarebbero state: «Non ho fatto niente».
In quei dieci giorni, però, intorno a lei e a Dragos era accaduto di tutto. Una città in allarme, volontari, forze dell’ordine, unità cinofile, servizi sui quotidiani, talk show pronti a discutere del “caso Tatiana”. E, soprattutto, un padre che racconta di aver ritrovato la figlia denutrita, incapace di reggersi in piedi, in evidente prostrazione fisica e psicologica.
Dall’altra parte, Dragos insiste: nessun sequestro, nessun maltrattamento, solo una convivenza “per amore”, decisa di comune accordo. Il gattino salvato insieme diventa il pretesto per salire in casa, la ragazza chiede che nessuno sappia, che non si risponda al telefono, che si sparisca dal mondo. Poi la situazione sfugge di mano, le ricerche partono, lui nega di sapere dov’è Tatiana, mentre le telecamere mostrano chiaramente che quella sera sono saliti insieme in mansarda.
In mezzo, una folla che si raduna sotto casa, pronta a vederci il mostro di turno. Dragos viene insultato sui social, maledetto in piazza, trattato come un assassino già scritto, prima che i fatti siano chiari. È il copione ormai consueto: dal sospetto alla gogna il passo è brevissimo.
Questa vicenda non è solo cronaca nera. È, soprattutto, uno specchio deformante del nostro tempo.
Da un lato c’è la fragilità personale. Roberta Bruzzone, criminologa, parla di “personalità non del tutto risolta”, di una identità fragile che investe troppo nella propria immagine social – il profilo di Tatiana contava oltre 50mila follower – e che fatica a reggere quando l’attenzione degli altri vacilla, cala, non basta mai. In questo orizzonte, la scelta di chiudersi per dieci giorni in una mansarda, tagliando fuori famiglia, amici, istituzioni, diventa il sintomo di un disagio profondo, più che di un semplice “colpo di testa”.
Dall’altro lato c’è la responsabilità, che non può essere assorbita tutta nella categoria della fragilità. Perché due adulti, pienamente informati che mezzo Paese li sta cercando, che la famiglia è nel panico, che forze dell’ordine e volontari sono mobilitati, non fermano l’allarme? Non basta dire “volevamo solo vivere il nostro amore” quando la tua libertà di sparire si è già trasformata in angoscia collettiva e in un enorme dispendio di risorse pubbliche.
È legittimo prendersi del tempo per sé, persino cambiare vita, sparire da una relazione che ti soffoca. Ma non si ha il diritto di mettere in scena una sparizione che tutti percepiscono come potenzialmente tragica – e poi restare zitti, a guardare il mondo impazzire da dietro una porta chiusa.
Qui si innesta un altro punto delicato: il ruolo della giustizia.
La Procura non procede, al momento, contro Tatiana né contro Dragos. Niente imputazioni, neppure per false dichiarazioni da parte del ragazzo. Qualcuno parla di linea “morbida”. Bruzzone, come altri, suggerisce almeno di valutare l’ipotesi di procurato allarme e l’addebito dei costi delle ricerche. Non per vendetta, ma per principio: per dire a tutti che certi comportamenti non sono neutri, non sono senza conseguenze, non possono diventare un pericoloso precedente.
E tuttavia, anche qui, bisogna diffidare degli automatismi. Non tutte le fragilità sono “trucchi per ottenere visibilità”, non tutti i silenzi sono calcolati, non tutte le cadute sono manipolazioni consapevoli. Se la giustizia deve far capire che le scelte degli adulti hanno un prezzo, deve farlo senza trasformare un disagio psichico in colpa morale e in reato esemplare.
Intanto, c’è un dato che resta inquietante: la mancanza di empatia mostrata nel non fermare la sofferenza dei genitori. In questo, la criminologa ha ragione: un adulto che sceglie di sparire ha anche il dovere minimo di dire “sto bene, non cercatemi”. Nessuno chiede di spiegare i perché più intimi, ma almeno di interrompere un dolore che, giorno dopo giorno, diventa insopportabile.
Se non lo fai, qualcosa si è rotto – in te, nelle relazioni, nel modo in cui percepisci te stesso e gli altri. È qui che comincia il lavoro di uno psicologo, non di un giudice; ed è qui che la famiglia ha il diritto, sacrosanto, di chiedere una verità piena, per quanto difficile possa essere raccontarla.
Sul fondo, resta la scena iniziale: quei cinquanta metri quadri in disordine, i piatti sporchi, le cicche nel posacenere, lo stendino con i panni ad asciugare, una ragazza tremante nascosta in un vano senza porta, un ragazzo in caserma che dice “siamo innamorati”, una folla in strada che urla la sua rabbia.
È la fotografia di un Paese che oscilla continuamente tra la tentazione del linciaggio e la fatica di capire, tra il bisogno di un colpevole immediato e la scomodità di ammettere che spesso non c’è un solo responsabile, ma una catena di fragilità, errori, mezze verità.
Forse il primo passo, adesso, è smettere di consumare Tatiana come un “caso”, una serie, un format, e ricordare che si tratta di una persona che ha evidentemente bisogno di aiuto. Il secondo è prendere sul serio il tema delle conseguenze: ciò che è accaduto ha un costo pubblico, economico e morale, e non può essere archiviato con un’alzata di spalle.
Tra la punizione esemplare e il “non è successo niente” c’è uno spazio che la nostra società dovrebbe imparare a frequentare di più: quello della responsabilità condivisa, della cura delle fragilità, della legge che educa senza demolire.
Il resto, i commenti feroci sui social, le etichette urlate, i processi improvvisati in diretta, è solo rumore di fondo. E non aiuta nessuno, né Tatiana, né i suoi genitori, né quel ragazzo rumeno che forse ha sbagliato molto, ma che era già stato condannato all’ergastolo mediatico prima ancora che qualcuno bussasse alla porta di quella mansarda.
