Quando il voto diventa rito vuoto e la democrazia si difende a mani nude
In Tanzania il verdetto è arrivato come un tuono annunciato: Samia Suluhu Hassan resta alla presidenza con quasi il 98% dei voti. Percentuali da regime, non da competizione. E infatti, più che una consultazione, è stata una prova di forza. Mentre la commissione elettorale proclamava la vittoria, nelle strade risuonavano ancora i colpi della repressione e il pianto delle famiglie che contano i morti. Centinaia, secondo le opposizioni; poche “vittime accidentali”, secondo il governo. In mezzo, un coprifuoco, internet oscurata e migliaia di persone in fuga verso il Kenya.
In molti angoli del mondo una simile cifra elettorale farebbe sorridere. In Africa fa male. Perché l’indipendenza ha promesso sovranità popolare, non percentuali bulgare. Perché, a 60 anni dal distacco dal Regno Unito, la Tanzania meriterebbe di essere citata per stabilità e crescita, non per liste bloccate, oppositori arrestati e attivisti scomparsi nel silenzio.
Solo pochi anni fa, con la scomparsa improvvisa di John Magufuli, Samia Hassan era parsa l’occasione per un cambio di passo: una donna alla guida del Paese, parole di apertura, segnali di dialogo. Oggi, invece, la speranza è scivolata in autoritarismo e nelle piazze si respira disillusione. L’opposizione è stata estromessa prima del voto, i leader detenuti o intimiditi, la società civile trattata come una minaccia. E quando i giovani hanno provato a dire “no”, hanno trovato manganelli, lacrimogeni e fucili.
Ma c’è un punto che in Africa — e chi guarda l’Africa — non dovrebbe mai dimenticare: le fratture democratiche qui non sono folklore politico. Sono vite. La violenza sulle strade tanzaniane non nasce nel vuoto: arriva dopo anni di concentrazione del potere, fragilità economica, un partito-Stato che governa ininterrottamente dal 1961, e un mondo che spesso guarda altrove quando democrazia e diritti si sgretolano lontano dalle telecamere occidentali.
Eppure, migliaia di persone hanno manifestato. Hanno chiesto riforme, una commissione elettorale indipendente, un reale pluralismo. Non si sono mosse per ideologie importate, ma per una parola semplice e potente: giustizia. È la nuova generazione africana — alfabetizzata, connessa, impaziente di dignità — a scendere in strada. Non per distruggere la Tanzania, ma per reclamarla.
La reazione della comunità internazionale è arrivata, tardiva e calibrata, tra note diplomatiche e richieste di indagini. Utili, certo. Ma insufficienti se restano solo parole. Per troppo tempo la stabilità è stata scambiata per pace, e il silenzio per neutralità. L’Africa ha visto troppe “democrazie” blindate da forze dell’ordine, troppi leader che vincono senza competere, troppi popoli invitati a votare senza scegliere.
C’è un proverbio swahili che dice:
“Ukweli unauma” — la verità fa male.
La verità, oggi, è che la democrazia tanzaniana è ferita.
Ma non è morta.
La prova è nelle lacrime delle madri, nella voce dei giovani che filmano ciò che vedono, nelle chiese e nelle moschee che aprono porte per offrire rifugio, nei giornalisti locali che scrivono nonostante la paura. È nella coscienza africana che cresce e non accetta più che il potere sia eterno, che la critica sia reato, che il sangue valga meno sotto l’equatore.
Le elezioni finiscono.
La responsabilità resta.
E la storia, in Africa come altrove, non la scrivono solo i vincitori: la scrive chi non smette di chiedere che la volontà popolare sia più forte della forza.
