Bullismo politico contro popoli e persone che soffrono

C’è un punto, nella politica, in cui la retorica smette di essere propaganda e diventa antropologia. Non descrive più il mondo: lo rifà. È in quel punto che si colloca la filippica di Donald Trump contro gli immigrati somali, liquidati come “spazzatura” e associati a un Paese che “puzza”, in uno sfogo che non è solo brutale: è programmatico. Perché “spazzatura” non è un insulto casuale. È una categoria morale. Trasforma persone in rifiuti. E quando la politica compie questa conversione linguistica, la violenza non è più un incidente: è un rischio strutturale.  

Il contesto rende il tutto ancora più eloquente. Le parole arrivano mentre, nell’area Minneapolis–St. Paul, si intensificano operazioni di enforcement che, secondo testimonianze locali e reportage, stanno colpendo la comunità somala con controlli e interventi mirati. È il nativismo che si fa amministrazione: non solo slogan da comizio, ma apparato.  

La scena è quasi cinematografica: un presidente che appare stanco durante una riunione di gabinetto, ma che si ridesta quando si parla di immigrazione, come se l’energia politica gli tornasse solo nel momento in cui può indicare un nemico. Il bersaglio, ancora una volta, non è soltanto una comunità: è un simbolo. E infatti Trump intreccia l’attacco ai somali con l’ossessione personale per Ilhan Omar, rifugiata somala diventata cittadina americana e deputata del Minnesota, trasformata da anni in emblema di ciò che la sua America “non vuole”. Omar stessa ha parlato di un’ossessione “inquietante” e del clima di minaccia che quella retorica alimenta.  

La cosa più grave, però, non è la volgarità. È l’idea di nazione che la volgarità veicola: un “noi” costruito per sottrazione, definito contro qualcuno. Su questo i sindaci di Minneapolis e St. Paul hanno reagito con parole che suonano come una lezione di educazione civica: “We the People” non è una formula retorica, è una domanda permanente su chi venga incluso nel patto sociale. Non è un dettaglio: è il cuore della democrazia.  

E mentre in Minnesota si tenta di contenere l’incendio, da Mogadiscio arriva una risposta che è un misto di prudenza e dipendenza: il premier somalo Hamza Abdi Barre ha detto che “a volte è meglio non rispondere”. Il che, tradotto in linguaggio diplomatico, significa: abbiamo bisogno degli Stati Uniti, non possiamo permetterci una rottura. È il paradosso tragico dei Paesi fragili: subiscono l’umiliazione anche quando sono alleati, perché l’asimmetria economica e strategica riduce lo spazio della dignità.  

Qui emerge l’altra contraddizione, più silenziosa e più tagliente: mentre l’amministrazione restringe l’ingresso dei rifugiati e alza muri retorici, la Somalia vive una crisi umanitaria aggravata anche dai tagli agli aiuti e dalla fragilità del sistema sanitario. E così, nello stesso tempo storico, l’America può colpire con la mano che respinge e ritirare la mano che soccorre. È una politica che non solo separa i corpi ai confini, ma spezza anche i legami morali che reggono l’idea stessa di responsabilità internazionale.

Quando poi il linguaggio si estende dal presidente ai suoi principali funzionari, la traiettoria è chiara. Kristi Noem, responsabile della sicurezza interna, ha evocato l’idea di un divieto di viaggio amplissimo, usando metafore disumanizzanti (“killers, leeches…”). È lo stesso meccanismo: la persona ridotta a infestazione. E quando la politica parla così, come ha avvertito anche chi studia da decenni la violenza politica, cresce la probabilità che qualcuno si senta autorizzato a “ripulire”. Non perché l’ordine venga esplicitamente dato, ma perché il terreno psicologico viene preparato.  

C’è infine un dettaglio che non andrebbe perso: Trump torna più furioso su questi temi quando è sulla difensiva — per l’economia, per scandali, per dossier che logorano il consenso. L’immigrazione diventa allora la leva emotiva perfetta: promette una soluzione semplice a problemi complessi e trasforma la frustrazione in identità. È la vecchia alchimia del capro espiatorio: non guarisce la società, la eccita. E a forza di eccitarla, la ammala.

L’elzeviro, per tradizione, non chiude con lo slogan, ma con una morale civile. E la morale è questa: quando un capo politico chiama “spazzatura” una parte del suo popolo — perché molti somali americani sono cittadini o residenti regolari — non sta solo insultando. Sta ridefinendo l’umano. Sta dicendo che alcune vite sono gettabili. E una democrazia può sopravvivere a molte crisi; difficilmente sopravvive a lungo alla cultura dello scarto, quando diventa linguaggio di Stato.