Nella notte tra il 10 e l’11 ottobre 1985, nella base di Sigonella, il governo italiano di Bettino Craxi si oppose alla Delta Force americana per trattenere i terroristi dell’Achille Lauro. Quarant’anni dopo, quella notte resta il simbolo di una stagione in cui l’Italia rivendicò la propria autonomia, ma anche l’inizio di un declino politico che avrebbe travolto il suo protagonista.

A Sigonella, quella notte d’autunno del 1985, non tirava vento. Eppure, come ricordano i testimoni, i cespugli intorno alla pista si muovevano: lì, nascosti nella macchia mediterranea, i tiratori scelti della Delta Force americana attendevano l’ordine di agire. Di fronte a loro, a pochi metri, un cordone di carabinieri italiani con le armi spianate. Non era una scena da film di guerra: era l’Italia che, per una notte, teneva testa agli Stati Uniti d’America.

L’aereo egiziano che trasportava i quattro sequestratori palestinesi dell’Achille Lauro era stato intercettato e costretto ad atterrare in Sicilia dai caccia americani. Washington voleva catturarli, consegnarli alla giustizia statunitense per l’omicidio dell’americano Leon Klinghoffer, il passeggero disabile ucciso e gettato in mare. Roma, invece, rivendicava la propria giurisdizione: il delitto era avvenuto su una nave battente bandiera italiana. Dietro quella disputa giuridica si nascondeva una questione di sovranità e di dignità nazionale.

La notte della fermezza

Il magistrato di turno, Roberto Pennisi, giovane sostituto procuratore di Siracusa, si trovò al centro di una crisi internazionale. Da un lato, il generale Carl Steiner, comandante della Delta Force, con l’ordine di “prendere a qualsiasi costo” i terroristi. Dall’altro, un’Italia che non voleva piegarsi. Pennisi, fedele alla Costituzione e alla propria giurisdizione, dichiarò che l’aereo si trovava in territorio italiano e che solo la magistratura italiana aveva l’autorità di agire.

«Se sono colpevoli, saranno puniti dalla giustizia italiana», rispose con calma al colonnello americano. Quell’atto di sobria fermezza evitò lo scontro armato fra alleati e, di fatto, salvò la vita a decine di uomini armati pronti a spararsi tra loro.

Dietro di lui, però, c’era un governo che aveva deciso di non cedere. Bettino Craxi, allora presidente del Consiglio, sostenne fino in fondo la linea della sovranità italiana, nonostante le fortissime pressioni della Casa Bianca di Ronald Reagan. Fu una delle rare volte nella storia repubblicana in cui Roma scelse di non essere la retroguardia diplomatica di Washington. Sigonella divenne così il simbolo di un’Italia che voleva contare nello scacchiere mediterraneo e mediorientale, capace di difendere il diritto e la propria autonomia politica.

Abbas, la ragion di Stato e l’ambiguità del potere

Ma la notte di Sigonella non fu solo un gesto di fierezza nazionale. Fu anche il terreno scivoloso in cui si incrociarono legalità, diplomazia e ragion di Stato. Tra i passeggeri dell’aereo c’era infatti Abu Abbas, il cervello del sequestro, uomo di collegamento dell’Olp e interlocutore indiretto di molte intelligence occidentali. Gli americani lo volevano subito. Gli italiani, dopo esitazioni e pressioni, lo lasciarono andare.

Fu una decisione politica, presa in nome della sicurezza nazionale: Craxi temeva che l’arresto potesse scatenare rappresaglie e nuovi attentati sul territorio italiano. Non aveva torto: pochi mesi dopo, nel dicembre 1985, Roma e Vienna furono colpite da attacchi terroristici di matrice palestinese.

Quel gesto, però, segnò anche l’inizio di una crisi di fiducia con gli Stati Uniti, che non dimenticarono Sigonella. E con il tempo, la parabola di Craxi — il leader socialista che per una notte aveva difeso la bandiera italiana davanti al Pentagono — si trasformò in una discesa verso la fine della Prima Repubblica.

La stessa fermezza che lo aveva reso protagonista internazionale si spense negli anni successivi, quando Tangentopoli travolse il sistema dei partiti e costrinse Craxi a rifugiarsi in Tunisia, dove morì nel 2000 da latitante, lontano dalla patria che aveva voluto difendere. La sovranità che aveva rivendicato a Sigonella non lo protesse più dalla responsabilità politica e giudiziaria che il suo tempo esigeva.

Lezione di sovranità, quarant’anni dopo

A quarant’anni di distanza, Sigonella resta una delle poche pagine limpide di autonomia nazionale nella nostra storia repubblicana. Un episodio in cui il diritto prevalse sulla forza e l’Italia riuscì, per un istante, a sedersi da pari accanto ai grandi. Ma è anche un monito: la sovranità non è una bandiera da sventolare, è una responsabilità da mantenere.

L’Italia di oggi, più che di eroismi, avrebbe bisogno di quella stessa dignità istituzionale: la capacità di dire “no” quando serve, di difendere il diritto internazionale anche di fronte agli alleati più potenti, di anteporre la giustizia alla convenienza.

Sigonella non fu un episodio di antiamericanismo, ma un atto di equilibrio politico tra alleanza e indipendenza. In un mondo nuovamente attraversato da guerre, tensioni e crisi di sovranità, ricordarla serve non per nostalgia, ma per memoria civile. Quella notte l’Italia dimostrò che anche un Paese medio può difendere la propria dignità se ha lo spirito, il diritto e il coraggio per farlo.

Quarant’anni dopo, in un tempo di alleanze fragili e leadership incerte, Sigonella rimane una lezione di libertà: quella che non si compra, non si impone, ma si esercita — con fermezza, rispetto e responsabilità.