L’attentato all’auto di Sigfrido Ranucci, volto e anima di Report, non è un episodio isolato. È il segnale di un clima che si fa pesante per chi, nel nostro Paese, ha ancora il coraggio di fare domande scomode.

Un ordigno piazzato sotto un’auto, un atto vile e simbolico, volto a colpire non solo un uomo ma il diritto stesso di raccontare.

Eppure, invece di un’unanime condanna, si è assistito alla solita strumentalizzazione politica: accuse incrociate, sospetti, commenti velenosi sui social. In un’Italia dove l’odio di parte prevale sul rispetto, anche un attentato contro un giornalista diventa terreno di scontro ideologico.

La verità come bersaglio

Report resta una delle poche trasmissioni televisive a praticare il giornalismo d’inchiesta vero, quello che scava, disturba, illumina le zone d’ombra del potere.

Ed è per questo che è odiata.

Quando la stampa non si limita a ripetere le versioni ufficiali ma pretende di capire, il potere reagisce: con le querele, con la delegittimazione, a volte con la violenza.

Ranucci è stato bersagliato verbalmente da esponenti politici, accusato di parzialità, e perfino di “attentare alle istituzioni”. Ma l’unico “attentato” vero è quello contro la libertà di informare.

La solidarietà di facciata

Dopo l’attentato, sono arrivati i messaggi di solidarietà.

Ma le querele restano, e gli attacchi continuano.

Che senso ha dire “siamo con te” e allo stesso tempo portare in tribunale chi indaga sui fatti?

La libertà di stampa non si difende con i comunicati, ma con i fatti: tutelando i cronisti, garantendo protezione a chi svela verità scomode, e fermando l’abuso delle cause civili come arma di intimidazione.

Una lunga scia di sangue

La storia d’Italia è intrisa del sangue dei giornalisti uccisi per il loro lavoro:

Giancarlo Siani, giovane cronista del Mattino assassinato a 26 anni dalla camorra per aver raccontato i legami tra clan e politica;

Mino Pecorelli, ucciso per le sue inchieste sui misteri di Stato;

Giuseppe Impastato, eliminato perché denunciava i boss;

Mauro RostagnoGiovanni SpampinatoBeppe AlfanoMauro De Mauro — nomi che ricordano che cercare la verità, in Italia, può costare la vita.

E tra i sopravvissuti, Maurizio Costanzo, scampato per miracolo a un’autobomba nel 1993.

Ogni volta, lo stesso copione: l’attacco, l’indignazione, la retorica, e poi l’oblio.

Oggi la minaccia a Sigfrido Ranucci riapre quella ferita mai chiusa.

Un Paese si misura dal rispetto che ha per chi lo racconta

La libertà di stampa non è un privilegio dei giornalisti, ma un diritto dei cittadini a sapere.

Difendere Report significa difendere il principio stesso della democrazia: che nessuno, nemmeno il più potente, è al di sopra delle domande.

Quando un giornalista viene minacciato, è lo Stato che deve rispondere.

E se la politica reagisce con fastidio o con sarcasmo, allora non è solo la libertà di un cronista a essere in pericolo, ma la coscienza civile di un intero Paese.

Sigfrido Ranucci non deve essere lasciato solo.

La sua resistenza professionale è la stessa che animava Siani, Pecorelli, Impastato, e tutti coloro che non hanno piegato la schiena.

Perché come scrisse Albert Camus, «un giornalista libero si misura più con ciò che tace che con ciò che dice».

E oggi, in Italia, tacere di fronte a chi tenta di spegnere la voce dell’inchiesta sarebbe il vero attentato alla verità.