L’uccisione dell’Ayatollah Ali Khamenei non sarebbe solo un omicidio politico: sarebbe l’innesco di un’escalation globale. In un Medio Oriente ormai incendiato, un simile gesto segnerebbe la fine di ogni argine diplomatico e l’avvio di una guerra totale. La Guida Suprema dell’Iran è molto più di un capo di Stato: è il collante religioso, ideologico e strategico di un’intera nazione, attorno al quale ruotano istituzioni, milizie e consensi popolari. Eliminare Khamenei significherebbe decapitare la Repubblica Islamica nella speranza — del tutto illusoria — di farla crollare dall’interno. Ma il risultato sarebbe ben altro: una reazione regionale a catena, guidata dalle forze sciite e anti-occidentali, in grado di trascinare il mondo in un abisso.

In questo scenario cupo, sorprende — e allo stesso tempo conferma il suo pragmatismo brutale — la posizione del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump. A differenza dei falchi del governo israeliano, che dopo i recenti attacchi subiti dall’Iran non escludono più nulla, Trump avrebbe bloccato ogni ipotesi di attacco diretto alla figura della Guida Suprema. Non per simpatia, ovviamente, ma per puro calcolo. Come già nel 2020 dopo l’uccisione di Qassem Soleimani, Trump intuisce che l’eliminazione di un leader simbolico non garantisce stabilità: la amplifica nel caos. Fonti diplomatiche parlano persino di un salvacondotto informale concesso a Khamenei, nella logica del “non oltrepassare la soglia irreversibile”.

È un gesto che – nel linguaggio della realpolitik – ha senso. L’assassinio di Khamenei renderebbe l’Iran imprevedibile, disintegrerebbe ogni canale negoziale, e costringerebbe milioni di civili a una guerra totale, senza più contenitori religiosi, istituzionali o morali. Uccidere l’Ayatollah significherebbe dichiarare la fine del diritto internazionale, in favore della legge della vendetta.

Per questo, paradossalmente, oggi è Trump a rappresentare un limite alla distruzione totale. Non perché creda nella pace, ma perché conosce il prezzo della guerra. E se il mondo continua a tollerare bombardamenti su civili, ospedali e persino televisioni, deve almeno avere il coraggio di dire che c’è una linea che non si può superare.

La vita dell’Ayatollah non è solo una questione umana. È una questione di sopravvivenza per tutti.