Giorgia Meloni è arrivata ad Assisi nel giorno di San Francesco con un ramoscello d’ulivo in mano. Il gesto, apparentemente carico di simbolismo, non è bastato a cancellare il disagio di molti credenti e pellegrini, che hanno visto in quell’immagine una distanza profonda tra il segno e la realtà.
Nel prato della Basilica superiore, dove sventolavano bandiere palestinesi e risuonava il nome di Gaza, la Premier ha parlato di pace con un linguaggio politico, non evangelico. E mentre invocava “responsabilità e ragionevolezza”, molti hanno percepito parole più vicine alla diplomazia che alla profezia.
Il santo della pace e la politica dell’ambiguità
San Francesco non fu mai un diplomatico. Fu un uomo libero, un povero di Cristo che attraversò la guerra e andò a incontrare il nemico, il sultano, disarmato e disarmante.
Non cercava il compromesso, ma la conversione dei cuori. Per questo, quando oggi il nome di Francesco viene evocato da chi sostiene piani di “pace” costruiti sulle armi o su equilibri di potere, si compie un’operazione ambigua.
Il cosiddetto “piano Trump”, definito dalla Premier “una luce di pace”, è in realtà la logica dei forti che impongono ai deboli la loro visione. È la pace che nasce dal silenzio dei vinti, non dal dialogo dei fratelli.
San Francesco, invece, sapeva che la pace non si impone mai: si costruisce nella verità e nella giustizia, o non è pace.
La fede non è sudditanza ma profezia
Il profeta Abacuc gridava: “Fino a quando, Signore, griderò violenza e non ascolti?”. È il grido di ogni uomo che vede l’ingiustizia e non si rassegna. Anche oggi, di fronte alla tragedia di Gaza, l’Italia avrebbe potuto scegliere una parola profetica. Invece, il silenzio diplomatico, la prudenza calcolata e la sudditanza agli Stati Uniti hanno prevalso sulla forza morale che la figura di Francesco avrebbe richiesto.
Non si tratta di schierarsi politicamente, ma di prendere posizione umanamente e cristianamente: riconoscere che la vita di ogni popolo, israeliano o palestinese, è sacra.
Francesco non fu mai “neutrale”: fu disarmato, ma mai muto. Anche i santi moderni – da Giovanni XXIII con la Pacem in terris a don Tonino Bello con la sua “convivialità delle differenze” – hanno insegnato che la pace non è equilibrio, ma conversione.
L’Italia di San Francesco non fabbrica armi
Nelle parole del Custode del Sacro Convento, fra Marco Moroni, si è udita la verità del Vangelo che la politica tende a dimenticare: “La pace non si costruisce quando si continuano a fabbricare e commerciare armi”.
Questa frase, così semplice, vale più di cento discorsi. Non può esserci pace dove si moltiplicano le armi, non può esserci giustizia se la fraternità si riduce a slogan.
San Francesco non avrebbe portato un ramoscello d’ulivo, ma avrebbe tolto le armi dalle mani degli uomini. Avrebbe pianto per Gaza, per Israele, per ogni bambino ucciso, per ogni madre in fuga. E avrebbe ricordato, come la presidente dell’Umbria Stefania Proietti, che l’Italia, se vuole dirsi “terra di Francesco”, deve ripudiare la guerra non solo con la Costituzione, ma con le scelte concrete.
Un ulivo da piantare, non da esibire
Il ramoscello d’ulivo che la Premier ha portato ad Assisi non bastava come gesto simbolico. L’ulivo va piantato, curato, protetto. Non basta sventolarlo: occorre sporcarsi le mani per farlo crescere.
Oggi l’Italia ha bisogno di una politica che parli la lingua della pace vera, quella che nasce dal coraggio di dire la verità, anche quando è scomoda agli alleati più potenti.
San Francesco ci ricorda che la pace non si annuncia nei discorsi solenni, ma si costruisce nel silenzio della preghiera, nel servizio ai poveri e nella rinuncia al potere.
Solo allora il suo nome, pronunciato ad Assisi, non sarà una cornice retorica, ma una parola viva.