Con la nascita del centro studi “Rinascimento nazionale”, legato all’associazione Mondo al contrario, Roberto Vannacci tenta di dare forma teorica a un progetto politico che va oltre la contingenza elettorale. Ma la costruzione di una metapolitica nazionale, quando si misura con la storia e con il potere, interroga profondamente anche la coscienza cristiana e i criteri della Dottrina sociale della Chiesa.
La decisione di dotarsi di un think tank non è mai un atto neutro. Nella politica contemporanea, segnata dalla frammentazione e dall’iper-comunicazione, il centro studi è il luogo in cui si cerca di stabilire non solo cosa pensare, ma come pensare. È l’ambizione di incidere sul senso comune, di orientare la memoria collettiva, di stabilire ciò che è legittimo recuperare dal passato e ciò che deve essere rimosso. In questo senso, Rinascimento nazionale rappresenta un passaggio decisivo: il tentativo di trasformare un consenso identitario in una visione del mondo.
Il lessico scelto è rivelatore. “Rinascimento” evoca un tempo nuovo, una rigenerazione dopo la decadenza, quasi una salvezza storica. È un linguaggio che appartiene più alla teologia politica che alla normale dialettica democratica. La Dottrina sociale della Chiesa mette però in guardia da ogni progetto che prometta una redenzione immanente della storia, perché quando la politica assume compiti salvifici tende inevitabilmente a sacrificare la persona concreta sull’altare dell’idea.
Il cuore dell’operazione culturale sta nella rilettura della storia italiana: l’invito a “fare pace” con il Ventennio e con la massoneria come matrice del Risorgimento non nasce da un’esigenza di ricerca disinteressata, ma da una strategia identitaria. La storia, in questo schema, non è più luogo di discernimento critico, ma serbatoio simbolico. La Chiesa, al contrario, ha sempre insistito su un principio essenziale: la memoria non serve a legittimare il potere, ma a educare la coscienza. Centesimus annus ricorda che senza verità sulla storia non esiste autentica riconciliazione, ma solo rimozione o strumentalizzazione.
Qui emerge un nodo delicato anche per il mondo cattolico. La riabilitazione culturale della massoneria, presentata come superamento dei tabù, entra in tensione con una tradizione ecclesiale che non ha mai letto la modernità solo in termini di conflitto, ma nemmeno l’ha mai assolta senza discernimento. La Dottrina sociale non demonizza la complessità storica, ma rifiuta ogni relativismo che dissolva la verità sull’uomo e sulla sua vocazione trascendente. Il problema non è “fare pace con la storia”, ma decidere a quale antropologia quella pace obbedisca.
Il rapporto con la Lega rende questa tensione ancora più evidente. Un partito che governa è chiamato a esercitare prudenza politica, cioè quella virtù che per la tradizione cristiana non è debolezza ma sapienza pratica. Un progetto metapolitico fondato sulla polarizzazione permanente, sulla “rivolta contro il pensiero unico”, rischia invece di sostituire la prudenza con la contrapposizione, il bene comune con l’identità combattiva. La Dottrina sociale è chiara: il bene comune non coincide con l’interesse di una parte, né con la vittoria culturale su un nemico, ma con l’insieme delle condizioni che permettono a ogni persona e a ogni comunità di fiorire.
In questo quadro, il richiamo implicito alle origini bossiane della Lega – con le loro mitologie pre-cristiane e simboliche – non è un dettaglio folcloristico. È il segno di una politica che tende a farsi rito, appartenenza quasi iniziatica, più che servizio. Ma una politica che smarrisce il riferimento alla persona e alla sua dignità trascendente finisce per assolutizzare la nazione, la cultura o l’identità. Ed è proprio contro queste idolatrie moderne che la Dottrina sociale ha costruito il suo impianto: lo Stato è al servizio della persona, non la persona al servizio dello Stato o del mito nazionale.
Il rischio più profondo di questa operazione culturale non è l’estremismo in senso stretto, ma l’indebolimento del senso autentico dello Stato. Quando la politica diventa narrazione salvifica, la critica viene percepita come tradimento, la complessità come ostilità, il dissenso come eresia civile. In questo clima, la democrazia si impoverisce e la responsabilità si dissolve nell’appartenenza emotiva.
La tradizione cristiana offre un criterio semplice e severo per giudicare ogni “rinascimento” politico: se rafforza la dignità della persona, la solidarietà tra i popoli e la ricerca della pace, allora è fecondo; se invece produce nuove contrapposizioni, nuove idolatrie e nuove esclusioni, è destinato a consumarsi. La storia insegna che le vere rinascite non nascono dall’esaltazione dell’identità, ma dalla conversione del cuore e dalla paziente costruzione del bene comune.
