Gli ostaggi sono tornati, ma la pace è rimasta prigioniera. In Israele si festeggia la libertà dei venti rapiti ancora in vita, accolti come figli ritrovati dopo un incubo durato quasi due anni. Ma oltre il confine, nella Striscia di Gaza ridotta in macerie, i fucili ricompaiono e le fazioni si contendono il potere: la tregua che ha permesso la liberazione rischia di trasformarsi nel preludio di un nuovo disordine.
La scritta sulla spiaggia di Tel Aviv, visibile persino dai finestrini ovali dell’Air Force One, dice «Grazie Trump». È il segno di un popolo che festeggia il ritorno a casa dei venti ostaggi israeliani ancora vivi, liberati dopo settecentotrentotto giorni di prigionia nei tunnel di Hamas. Le immagini degli elicotteri che li riportano al sicuro, gli abbracci in piazza davanti al Museo di arte contemporanea, la gioia trattenuta nei reparti degli ospedali di Tel Aviv hanno segnato un momento di catarsi collettiva.
Gli israeliani si stringono di nuovo intorno a un’idea di patria ferita ma ancora capace di rinascere. È l’ora degli abbracci, dei canti, delle lacrime. Ma come ha detto una madre durante la manifestazione di sabato, «sono felice, ma così triste».
È la formula perfetta per descrivere lo stato d’animo di un Paese che, mentre ritrova i suoi figli, si affaccia su un futuro incerto e pieno di insidie.
Una tregua dal respiro corto
Donald Trump, accolto con una standing ovation alla Knesset e salutato come “l’artefice della pace”, ha spinto Benjamin Netanyahu verso un accordo che per ora ha fermato i bombardamenti. Il presidente americano parla di “fine della guerra” e di “nuova epoca per il Medio Oriente”. Ma tra i venti punti del suo piano, quello più fragile resta il destino di Gaza.
La Striscia, devastata da due anni di conflitto, non è un terreno neutrale su cui costruire. È un tessuto sfilacciato, una società che porta le cicatrici di decenni di assedio, di paura, di militanza e di povertà. Ogni tregua rischia di diventare una pausa di riorganizzazione per le milizie e una nuova illusione per i civili.
Gaza, la terra senza padrone
Ora che i droni israeliani tacciono e le truppe si sono ritirate, la Striscia rischia di trasformarsi in un Far West armato, dove il vuoto di potere è più pericoloso della guerra.
Le armi non sono scomparse, ma cambiano di mano: uomini in divisa blu, miliziani mascherati, poliziotti improvvisati tornano a presidiare i quartieri distrutti.
Hamas ha inviato messaggi a migliaia di membri delle sue forze di sicurezza perché “ripuliscano Gaza dai fuorilegge”, mentre nomina nuovi governatori provenienti dai ranghi militari.
Ma il monopolio della forza, fondamento di ogni autorità politica, non esiste più.
Il potere è conteso fra clan, bande, gruppi jihadisti rivali e una popolazione esasperata.
Le lotte intestine di questi giorni – come quella tra Hamas e il clan Dughmush a Gaza City, finita con decine di morti – sono il preludio di una anarchia annunciata.
L’illusione della normalità
Il rischio è che la fine del conflitto non apra alla pace, ma a una lunga stagione di microconflitti, regolamenti di conti e vendette.
La collaborazione con Israele di alcune milizie locali durante la guerra, il ritorno dei detenuti palestinesi liberati nello scambio, la crisi di consenso di Hamas e la debolezza cronica dell’Autorità nazionale palestinese creano una miscela esplosiva.
La popolazione civile, che ha perso case, figli e speranza, si ritrova ora senza un riferimento politico e morale, abbandonata alle dinamiche del più forte.
La parola “ricostruzione” si svuota, se non si accompagna a un disarmo credibile e a una ripresa del tessuto sociale e culturale.
Ricostruire Gaza non significa solo ricostruire muri: significa restituire senso a una comunità che non sa più a chi appartiene.
Il giorno dopo la liberazione
Nei reparti ospedalieri di Tel Aviv, intanto, gli ostaggi liberati cercano di riabituarsi alla luce e ai rumori della vita quotidiana.
I medici hanno creato per ciascuno un’équipe dedicata, con psicologi, fisioterapisti, nutrizionisti. «Offriamo spazio e silenzio», dice la direttrice del Beilinson Hospital.
Ma se la cura dei corpi è possibile, quella delle coscienze collettive è più complessa.
Perché ogni ritorno alla normalità in Israele riapre la ferita di Gaza, e ogni rivincita di Hamas rischia di trasformarsi in una nuova spirale di odio.
L’ora della responsabilità
L’Europa, l’America, il mondo arabo, hanno oggi davanti una prova decisiva: impedire che la tregua si dissolva nel caos.
Senza un’Autorità palestinese riformata e sostenuta, senza un piano concreto per il disarmo e la sicurezza dei civili, Gaza può diventare una Somalia sul Mediterraneo: frammentata, armata, ostaggio dei propri clan.
Il Vangelo ci ricorda che «beati gli operatori di pace» non è un invito poetico, ma un mandato storico.
Operare la pace oggi significa entrare nei vuoti di potere prima che li occupino le armi, offrire speranza dove tutto sembra perduto.
È un compito politico e spirituale insieme: quello di ricucire la dignità umana in una terra che da troppo tempo conosce solo la logica della rappresaglia.
Oggi gli ostaggi sono tornati a casa e le famiglie si stringono ai loro figli.
Ma la pace vera, quella che nasce dal riconoscimento reciproco, resta ancora lontana.
Se Gaza diventerà un mosaico di bande armate, non sarà soltanto una sconfitta politica: sarà una sconfitta dell’umanità.
Il compito della comunità internazionale, e di ogni uomo di fede, è impedire che l’ultima parola di questa storia sia ancora una volta la violenza.